Dialogare sulla poesia attraversando le parole, scrutando le corrispondenze, ascoltando la voce dei suoi autori. Per il quinto anno consecutivo l’Ateneo Federico II invita un poeta a risiedere in città per una serie di letture e colloqui, distribuiti dal 10 al 14 maggio, sul senso e sulla risonanza del linguaggio poetico. Cosa può essere la poesia oggi? Probabilmente “lo strumento di profondità per cercare qualche orizzonte”. Parla Fabio Pusterla, tra le voci più significative del panorama contemporaneo, nonché traduttore, docente e critico letterario.
Un poeta è residente quando vive in quale spazio e in quale tempo? Della vita o della scrittura? E nel lavoro del poeta quanto dell’una influenza l’altra?
“Per me le due cose si annodano strettamente: il ‘lavoro del poeta’ (se di lavoro si può parlare; io preferisco il termine ‘ricerca’) avviene dentro il linguaggio, naturalmente, ma anche dentro la vita. La scrittura non può darsi dentro una vita non orientata verso di lei; e d’altro canto si può sperare che l’esercizio della scrittura contribuisca a indirizzare l’esistenza”.
Qual è il suo rapporto con i luoghi? La poesia, in fondo, non è anch’essa per sua natura una città di frontiera, una forma d’arte relegata ai confini del verso?
“I luoghi, e lo sguardo che sui luoghi si posa, sono per me ingredienti fondamentali della scrittura. Credo di aver capito che il mio occhio tende quasi naturalmente a cogliere ciò che sta ai margini della scena; per questo prediligo i luoghi di contatto, periferici o anche i luoghi in cui l’elemento ‘naturale’ e quello umano si sfiorano e si mescolano. Essere ‘ai margini’ tuttavia non significa soltanto ‘non essere al centro’, vuole anche dire assumere un atteggiamento di curiosità, di apertura, di esplorazione, perché gli elementi di novità conoscitiva sono sempre più visibili nelle zone marginali, in movimento. E allora è forse questo il cammino della poesia: spostarsi ai margini per capire meglio cosa sta accadendo”.
Ritornando alla terra, cosa rappresenta per lei l’arrivo nella città di Napoli?
“Sono particolarmente affezionato a questa città, in parte perché ho studiato a fondo uno dei suoi scrittori più bizzarri, Vittorio Imbriani, e quello studio, durato anni, mi ha portato molto addentro a certi aspetti della sua storia; e un altro motivo ‘letterario’ è una pagina del ‘Libretto’ di Philippe Jaccottet dedicata a Napoli. E infine c’è naturalmente la città in sé, con il suo groviglio di fascino, contraddizioni, bellezze e miserie”.
Quando ha capito che la poesia poteva essere la lingua privilegiata per esprimersi?
“La poesia ha cominciato ad attrarmi, come spesso capita, molto presto, negli anni dell’adolescenza; poi c’è stato un lungo periodo complicato, in cui ho inconsciamente provato a negarne il valore e l’importanza, pur continuando a leggerla e a tentare di scriverla quasi segretamente. E poi, un po’ dopo i vent’anni, ho capito che quella poteva essere la mia strada”.
Nel suo lavoro di docente cosa le piace del contatto con le nuove generazioni? La poesia svolge – come è stato in altre epoche – ancora un ruolo di formazione di idee e pensieri?
“La scuola, il liceo principalmente, e da una decina di anni anche l’Università, è stato il luogo in cui ho lavorato per più di 35 anni, e dove ancora lavoro. Non so quanto io sia riuscito a insegnare qualcosa ai miei studenti; di certo ho imparato moltissimo da loro. A me sembra che la poesia possa entrare potentemente nella vita di un giovane studente; non sempre, né sempre lungo le vie maestre dell’apprendimento scolastico. Ma spesso l’incontro avviene ed è cruciale. La parola della poesia non lascia scampo: non trasporta in altri mondi, non ‘diverte’, non ‘intrattiene’. Sta di fronte, nuda nel suo desiderio di verità profonda, e obbliga il lettore a specchiarsi, a interrogarsi, a scandagliarsi. È questo il suo potere, che penso sia dovuto soprattutto a due fattori: il ritmo e le immagini”.
Un poeta è residente quando vive in quale spazio e in quale tempo? Della vita o della scrittura? E nel lavoro del poeta quanto dell’una influenza l’altra?
“Per me le due cose si annodano strettamente: il ‘lavoro del poeta’ (se di lavoro si può parlare; io preferisco il termine ‘ricerca’) avviene dentro il linguaggio, naturalmente, ma anche dentro la vita. La scrittura non può darsi dentro una vita non orientata verso di lei; e d’altro canto si può sperare che l’esercizio della scrittura contribuisca a indirizzare l’esistenza”.
Qual è il suo rapporto con i luoghi? La poesia, in fondo, non è anch’essa per sua natura una città di frontiera, una forma d’arte relegata ai confini del verso?
“I luoghi, e lo sguardo che sui luoghi si posa, sono per me ingredienti fondamentali della scrittura. Credo di aver capito che il mio occhio tende quasi naturalmente a cogliere ciò che sta ai margini della scena; per questo prediligo i luoghi di contatto, periferici o anche i luoghi in cui l’elemento ‘naturale’ e quello umano si sfiorano e si mescolano. Essere ‘ai margini’ tuttavia non significa soltanto ‘non essere al centro’, vuole anche dire assumere un atteggiamento di curiosità, di apertura, di esplorazione, perché gli elementi di novità conoscitiva sono sempre più visibili nelle zone marginali, in movimento. E allora è forse questo il cammino della poesia: spostarsi ai margini per capire meglio cosa sta accadendo”.
Ritornando alla terra, cosa rappresenta per lei l’arrivo nella città di Napoli?
“Sono particolarmente affezionato a questa città, in parte perché ho studiato a fondo uno dei suoi scrittori più bizzarri, Vittorio Imbriani, e quello studio, durato anni, mi ha portato molto addentro a certi aspetti della sua storia; e un altro motivo ‘letterario’ è una pagina del ‘Libretto’ di Philippe Jaccottet dedicata a Napoli. E infine c’è naturalmente la città in sé, con il suo groviglio di fascino, contraddizioni, bellezze e miserie”.
Quando ha capito che la poesia poteva essere la lingua privilegiata per esprimersi?
“La poesia ha cominciato ad attrarmi, come spesso capita, molto presto, negli anni dell’adolescenza; poi c’è stato un lungo periodo complicato, in cui ho inconsciamente provato a negarne il valore e l’importanza, pur continuando a leggerla e a tentare di scriverla quasi segretamente. E poi, un po’ dopo i vent’anni, ho capito che quella poteva essere la mia strada”.
Nel suo lavoro di docente cosa le piace del contatto con le nuove generazioni? La poesia svolge – come è stato in altre epoche – ancora un ruolo di formazione di idee e pensieri?
“La scuola, il liceo principalmente, e da una decina di anni anche l’Università, è stato il luogo in cui ho lavorato per più di 35 anni, e dove ancora lavoro. Non so quanto io sia riuscito a insegnare qualcosa ai miei studenti; di certo ho imparato moltissimo da loro. A me sembra che la poesia possa entrare potentemente nella vita di un giovane studente; non sempre, né sempre lungo le vie maestre dell’apprendimento scolastico. Ma spesso l’incontro avviene ed è cruciale. La parola della poesia non lascia scampo: non trasporta in altri mondi, non ‘diverte’, non ‘intrattiene’. Sta di fronte, nuda nel suo desiderio di verità profonda, e obbliga il lettore a specchiarsi, a interrogarsi, a scandagliarsi. È questo il suo potere, che penso sia dovuto soprattutto a due fattori: il ritmo e le immagini”.
I giovani e la poesia
Cosa si può fare per accostarsi alla poesia?
“La poesia va prima di tutto letta e ascoltata, nel silenzio da cui proviene e che la circonda. Dopo si potrà commentarla, o come si dice spesso ‘analizzarla’; si potrà e si dovrà fare tutto questo, certo, ma solo ‘dopo’. E uno studente cosa potrebbe fare? Non ho grandi ricette, ma direi: prenditi un buon libro di poesia, un grande libro di poesia, e leggitelo per conto tuo. Vedrai che alla fine avrai capito da solo molte cose”.
In che modo sviluppa le varie fasi del processo creativo? Cioè: quando e come scrive?
“Scrivo più raramente di quello che si potrebbe pensare; un po’ perché ho poco tempo, un po’ perché la gestazione di una poesia avviene in modi misteriosi, quasi sempre mentali (su una specie di lavagna interiore), e in una prima, lunga fase, si affida a brevi annotazioni o appunti che prendo quando capita, un po’ ovunque, su piccoli quadernetti che ho sempre con me. Poi, a un certo punto, arriva il momento della scrittura vera e propria, e del lavoro sulla scrittura. Di solito questo si svolge nel mio piccolo studio, preferibilmente di mattina presto, sulla carta o sullo schermo di un computer”.
Quali autori ha attraversato con spirito del ritorno? E a quali continua a rivolgersi?
“Montale, forse il primo poeta italiano su cui ho tentato di approfondire il discorso; Sereni, che insieme a Orelli mi ha accompagnato a lungo, e che ancora oggi ritengo la voce forse più alta e perturbante del secondo ’900; Jaccottet, che traduco da trent’anni e da cui ho imparato moltissime cose”.
Poesia e impegno civile. In che modo possono dialogare in un orizzonte devastato da violenza, della lingua e del corpo, di nuova barbarie e difficile comunicazione tra le culture?
“Non ci sono risposte possibili, temo. L’orizzonte è davvero cupissimo; ma lo è stato molte altre volte nel corso della storia. Altri prima di noi hanno certo disperato, e forse con ragioni assai più concrete delle nostre. Pensare a questo non significa affatto attenuare l’orrore del nostro presente; piuttosto, confidare nella resistenza, nella tenacia e nel dovere di speranza”.
Volendo fotografare la realtà attuale, qual è lo stato del pubblico di lettori di poesia?
“Il pubblico della poesia esiste, ed è più numeroso e più solido di quanto si possa pensare. La poesia esiste, ha imparato a sopravvivere ‘al di sotto’ e ‘al di fuori’ del mercato editoriale”.
Sabrina Sabatino
“La poesia va prima di tutto letta e ascoltata, nel silenzio da cui proviene e che la circonda. Dopo si potrà commentarla, o come si dice spesso ‘analizzarla’; si potrà e si dovrà fare tutto questo, certo, ma solo ‘dopo’. E uno studente cosa potrebbe fare? Non ho grandi ricette, ma direi: prenditi un buon libro di poesia, un grande libro di poesia, e leggitelo per conto tuo. Vedrai che alla fine avrai capito da solo molte cose”.
In che modo sviluppa le varie fasi del processo creativo? Cioè: quando e come scrive?
“Scrivo più raramente di quello che si potrebbe pensare; un po’ perché ho poco tempo, un po’ perché la gestazione di una poesia avviene in modi misteriosi, quasi sempre mentali (su una specie di lavagna interiore), e in una prima, lunga fase, si affida a brevi annotazioni o appunti che prendo quando capita, un po’ ovunque, su piccoli quadernetti che ho sempre con me. Poi, a un certo punto, arriva il momento della scrittura vera e propria, e del lavoro sulla scrittura. Di solito questo si svolge nel mio piccolo studio, preferibilmente di mattina presto, sulla carta o sullo schermo di un computer”.
Quali autori ha attraversato con spirito del ritorno? E a quali continua a rivolgersi?
“Montale, forse il primo poeta italiano su cui ho tentato di approfondire il discorso; Sereni, che insieme a Orelli mi ha accompagnato a lungo, e che ancora oggi ritengo la voce forse più alta e perturbante del secondo ’900; Jaccottet, che traduco da trent’anni e da cui ho imparato moltissime cose”.
Poesia e impegno civile. In che modo possono dialogare in un orizzonte devastato da violenza, della lingua e del corpo, di nuova barbarie e difficile comunicazione tra le culture?
“Non ci sono risposte possibili, temo. L’orizzonte è davvero cupissimo; ma lo è stato molte altre volte nel corso della storia. Altri prima di noi hanno certo disperato, e forse con ragioni assai più concrete delle nostre. Pensare a questo non significa affatto attenuare l’orrore del nostro presente; piuttosto, confidare nella resistenza, nella tenacia e nel dovere di speranza”.
Volendo fotografare la realtà attuale, qual è lo stato del pubblico di lettori di poesia?
“Il pubblico della poesia esiste, ed è più numeroso e più solido di quanto si possa pensare. La poesia esiste, ha imparato a sopravvivere ‘al di sotto’ e ‘al di fuori’ del mercato editoriale”.
Sabrina Sabatino