Continua il viaggio nel mondo delle inviate di guerra con “La guerra vista dalle donne”, ciclo di seminari organizzati all’Orientale nell’ambito del corso di laurea specialistica in Comunicazione Interculturale. Dopo gli incontri con Giovanna Botteri e Tiziana Ferrario, giovedì 10 maggio gli studenti hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con lo sguardo di Monica Maggioni, telegiornalista del Tg1 e inviata in Iraq nell’ultimo conflitto.
Uno sguardo che traccia una panoramica sulla complessità dei fattori che hanno portato alla guerra in Iraq, dall’11 settembre in poi. Data a partire da cui un episodio indubbiamente drammatico è servito però come punto d’appoggio “per chi vuole raccontare il mondo come diviso in due blocchi contrapposti”, spiega la Maggioni. Scenario nel quale prende forma l’indiscussa responsabilità che hanno avuto i media nel tracciare questa visione di due blocchi ideologici e culturali inevitabilmente destinati a scontrarsi in modo violento. E nel cominciare a dare un volto preciso al supposto nemico, confondendo parole molto diverse tra loro come terrorista, fondamentalista, islamico, musulmano, per definire un’alterità da contrapporre ad un “noi”, in una dicotomia elementare di bene e male. Tutti elementi, continua la Maggioni, che corrispondono ad una necessità molto precisa: ottenere una rappresentazione semplice, adatta all’incalzante velocità dei mezzi di comunicazione, e insieme rassicurante, che permetta di ricompattare il mondo occidentale, come ai tempi della guerra fredda. D’altra parte, “non è neanche vero che non esistono i terrorismi e i fondamentalismi, non rischiamo di fare l’errore opposto – ammonisce la Maggioni- ma bisogna dare a questi fenomeni un valore relativo e percentuale rispetto al contesto e a molti altri elementi in gioco”. In ogni caso, gli schemi basati sulle opposizioni binarie di buoni e cattivi sono stati funzionali alla politica, spiega la Maggioni, ricordando anche un testo di un ex collaboratore di Bush, Richard Clarke, il quale testimonia che lo stesso 11 settembre il presidente degli Usa chiese ai suoi servizi segreti di trovare a tutti i costi prove dell’implicazione di Saddam Hussein con al-Qaeda, sebbene fosse chiaro a tutti che quelle prove non esistevano. “E’ stato dimostrato dalla storia che le armi di distruzione di massa in Iraq non esistevano, e che il legame che già allora appariva improbabile tra il dittatore iracheno e al-Qaeda non è mai esistito, perché Saddam non avrebbe mai accettato di avere un potenziale contropotere in casa. Ma in quel periodo, con i dossier contraffatti dei servizi segreti, era molto difficile dimostrarlo, anche se lo si pensava”. E il dopo-11 settembre è infatti il periodo che la Maggioni descrive come uno dei più critici per la professionalità dei giornalisti, nel trovarsi, come nel suo caso, costretta a riportare che alle Nazioni Unite venivano presentati i dossier che avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza delle armi di distruzione di massa, senza poter fare altro che inserire ogni tanto nel suo racconto qualche condizionale per innestare un vago dubbio, nella mancanza assoluta di prove in senso opposto. Perché chi in quel periodo riusciva ad opporsi alla propaganda filobellica, nel caso di giornali come il britannico Independent, lo faceva su basi solo ideologiche, perché nessuno aveva accesso ad altre fonti che non fossero quelle ufficiali. E quello che univa giornalisti e politici, sostiene la Maggioni, era il senso di impotenza e di rischio: perché nel caso improbabile in cui le armi di distruzione di massa fossero esistite per davvero nessuno voleva prendersi la responsabilità di avere sottovalutato la cosa. Un periodo di incertezze e paure durato un paio d’anni che ha preceduto la vera e propria guerra. “Volevo a tutti i costi andare in Iraq per seguire gli avvenimenti – racconta- e quando al Tg mi dissero che qualcun altro sarebbe stato mandato al mio posto feci l’impossibile, finché non riuscii ad entrare come embedded insieme all’esercito americano”. Cosa che in patria le è costato il marchio di filoamericanista ed entusiasta sostenitrice del conflitto. “Dopo due mesi con l’esercito – nel quale sono riuscita a raccontare molte cose interessanti grazie alla confusione che regnava nei reparti americani, dove inizialmente non c’era alcuna censura, finché non cominciarono i primi morti che non dovevano avere troppa visibilità in patria – ho passato altri due anni e mezzo a Bagdad, ma questo non lo ricorda nessuno. Credo però sia stato importante raccontare anche la guerra da quel punto di vista: è inutile dire ‘con i militari non ci vado’, l’importante è essere chiari e corretti e fare capire allo spettatore che quello è un resoconto parziale legato al contesto in cui si trova il giornalista. E dato che eravamo in tutto quindici corrispondenti Rai, poteva essere solo un arricchimento in più stare a contatto con questi soldati per scoprire che al 90% sono giovanissimi, analfabeti e capitati in guerra per pagarsi il college o per ottenere la cittadinanza”. Soldati raccontati dalla Maggioni come ragazzi, fatta eccezione per le truppe speciali, mandati completamente allo sbaraglio, senza avere idea di come fosse fatto un iracheno ‘da vicino’, cosa che domandavano a lei: “una sera non ce l’ho fatta più e ho risposto ad una soldatessa: sono verdi e con le antenne”. Una situazione che probabilmente ha contribuito a determinare “il caos totale che è il dopoguerra, o meglio la seconda fase della guerra, dove l’esercito americano ha fatto una serie di errori talmente clamorosi nel gestire la situazione che quasi non si riesce a credere che possa essere capitato per caso. Ma su questo sto facendo degli studi, per cercare di capire”.
Viola Sarnelli
Uno sguardo che traccia una panoramica sulla complessità dei fattori che hanno portato alla guerra in Iraq, dall’11 settembre in poi. Data a partire da cui un episodio indubbiamente drammatico è servito però come punto d’appoggio “per chi vuole raccontare il mondo come diviso in due blocchi contrapposti”, spiega la Maggioni. Scenario nel quale prende forma l’indiscussa responsabilità che hanno avuto i media nel tracciare questa visione di due blocchi ideologici e culturali inevitabilmente destinati a scontrarsi in modo violento. E nel cominciare a dare un volto preciso al supposto nemico, confondendo parole molto diverse tra loro come terrorista, fondamentalista, islamico, musulmano, per definire un’alterità da contrapporre ad un “noi”, in una dicotomia elementare di bene e male. Tutti elementi, continua la Maggioni, che corrispondono ad una necessità molto precisa: ottenere una rappresentazione semplice, adatta all’incalzante velocità dei mezzi di comunicazione, e insieme rassicurante, che permetta di ricompattare il mondo occidentale, come ai tempi della guerra fredda. D’altra parte, “non è neanche vero che non esistono i terrorismi e i fondamentalismi, non rischiamo di fare l’errore opposto – ammonisce la Maggioni- ma bisogna dare a questi fenomeni un valore relativo e percentuale rispetto al contesto e a molti altri elementi in gioco”. In ogni caso, gli schemi basati sulle opposizioni binarie di buoni e cattivi sono stati funzionali alla politica, spiega la Maggioni, ricordando anche un testo di un ex collaboratore di Bush, Richard Clarke, il quale testimonia che lo stesso 11 settembre il presidente degli Usa chiese ai suoi servizi segreti di trovare a tutti i costi prove dell’implicazione di Saddam Hussein con al-Qaeda, sebbene fosse chiaro a tutti che quelle prove non esistevano. “E’ stato dimostrato dalla storia che le armi di distruzione di massa in Iraq non esistevano, e che il legame che già allora appariva improbabile tra il dittatore iracheno e al-Qaeda non è mai esistito, perché Saddam non avrebbe mai accettato di avere un potenziale contropotere in casa. Ma in quel periodo, con i dossier contraffatti dei servizi segreti, era molto difficile dimostrarlo, anche se lo si pensava”. E il dopo-11 settembre è infatti il periodo che la Maggioni descrive come uno dei più critici per la professionalità dei giornalisti, nel trovarsi, come nel suo caso, costretta a riportare che alle Nazioni Unite venivano presentati i dossier che avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza delle armi di distruzione di massa, senza poter fare altro che inserire ogni tanto nel suo racconto qualche condizionale per innestare un vago dubbio, nella mancanza assoluta di prove in senso opposto. Perché chi in quel periodo riusciva ad opporsi alla propaganda filobellica, nel caso di giornali come il britannico Independent, lo faceva su basi solo ideologiche, perché nessuno aveva accesso ad altre fonti che non fossero quelle ufficiali. E quello che univa giornalisti e politici, sostiene la Maggioni, era il senso di impotenza e di rischio: perché nel caso improbabile in cui le armi di distruzione di massa fossero esistite per davvero nessuno voleva prendersi la responsabilità di avere sottovalutato la cosa. Un periodo di incertezze e paure durato un paio d’anni che ha preceduto la vera e propria guerra. “Volevo a tutti i costi andare in Iraq per seguire gli avvenimenti – racconta- e quando al Tg mi dissero che qualcun altro sarebbe stato mandato al mio posto feci l’impossibile, finché non riuscii ad entrare come embedded insieme all’esercito americano”. Cosa che in patria le è costato il marchio di filoamericanista ed entusiasta sostenitrice del conflitto. “Dopo due mesi con l’esercito – nel quale sono riuscita a raccontare molte cose interessanti grazie alla confusione che regnava nei reparti americani, dove inizialmente non c’era alcuna censura, finché non cominciarono i primi morti che non dovevano avere troppa visibilità in patria – ho passato altri due anni e mezzo a Bagdad, ma questo non lo ricorda nessuno. Credo però sia stato importante raccontare anche la guerra da quel punto di vista: è inutile dire ‘con i militari non ci vado’, l’importante è essere chiari e corretti e fare capire allo spettatore che quello è un resoconto parziale legato al contesto in cui si trova il giornalista. E dato che eravamo in tutto quindici corrispondenti Rai, poteva essere solo un arricchimento in più stare a contatto con questi soldati per scoprire che al 90% sono giovanissimi, analfabeti e capitati in guerra per pagarsi il college o per ottenere la cittadinanza”. Soldati raccontati dalla Maggioni come ragazzi, fatta eccezione per le truppe speciali, mandati completamente allo sbaraglio, senza avere idea di come fosse fatto un iracheno ‘da vicino’, cosa che domandavano a lei: “una sera non ce l’ho fatta più e ho risposto ad una soldatessa: sono verdi e con le antenne”. Una situazione che probabilmente ha contribuito a determinare “il caos totale che è il dopoguerra, o meglio la seconda fase della guerra, dove l’esercito americano ha fatto una serie di errori talmente clamorosi nel gestire la situazione che quasi non si riesce a credere che possa essere capitato per caso. Ma su questo sto facendo degli studi, per cercare di capire”.
Viola Sarnelli