Crescita, o non crescita? Questo è il problema. Un titolo shakespeariano per una lezione magistrale sulla nostra epoca. In cattedra, ospite del Laboratorio ‘NEXT – Nuova Economia X Tutti’ dei professori Adele Caldarelli, Direttrice del Dipartimento di Economia, Management e Istituzioni, Mauro Sciarelli
e Renato Briganti, l’economista e filosofo francese Serge Latouche, Professore Emerito di Scienze Economiche all’Università di Parigi XI e all’Institut d’Études du Developement Économique et Social (IEDES) di Parigi, sostenitore della cosiddetta ‘Decrescita felice e del Localismo’, autore di un numero sterminato di saggi sull’Etica e l’Economia che mettono in discussione l’attuale modello economico capitalistico. Il 24 maggio, presso l’Aula G5 di Monte
Sant’Angelo, un nutrito pubblico di studenti, docenti e ricercatori ha partecipato ad una conversazione appassionante sulle categorie mentali e sociologiche che ci governano. “Si potrebbe anche dire ‘credere o non credere’ perché l’Economia è una religione. La crescita è una credenza basata sulla fede nel progresso. All’inizio della mia carriera, anch’io ero duro e puro. Poi ho perduto la fede, diventando pagano, e ora sono un profeta della decrescita – dice l’economista citando il paradosso del Presidente George W. Bush che suggerì alla conferenza dei meteorologi statunitensi, come soluzione al cambiamento climatico, un rimedio economico – Contro la fede, gli argomenti razionali non servono, sembrano blasfemi. Dobbiamo rinunciare alla sua illusione, potremmo dire alla sua impostura”. I termini crescita e sviluppo provengono dalla Biologia; associati, indicano il processo di ingrandimento e trasformazione di un essere vivente. Una dinamica che fa evolvere un processo quantitativo in uno qualitativo è un fenomeno bellissimo, che tutte le società umane hanno celebrato, ma, quando gli economisti hanno introdotto questi concetti nella scienza economica, lo hanno fatto con inganno. “Giambattista Vico vedeva le civiltà umane come organismi che, al termine del loro ciclo vitale, muoiono. Ma gli economisti hanno immaginato una crescita illimitata, ispirata alla meccanica newtoniana e ai suoi principi di reversibilità, incompatibili con un pianeta finito”. Il mondo concreto non obbedisce all’astrattismo della Matematica, ma alle leggi della Fisica, della Termodinamica e al suo Secondo Principio, il quale afferma che, una volta perturbato, un sistema non può tornare alle condizioni iniziali. Quando bruciamo trenta litri di petrolio in un’auto, questi non sono scomparsi, sono diventati gas serra. Il nostro modello sociale è finito negli anni ’70. Come per le stelle estinte, delle quali percepiamo ancora la luce, da oltre trent’anni ne sopravvive il mito, grazie al mago Alan Greenspan, Presidente dellaBanca Centrale Americana. All’orizzonte c’è un mondo dominato dalla disperazione, senza alcuna possibilità di finanziare lo Stato Sociale che sostiene la cultura, la salute argina la disoccupazione. La nostra società è basata sulla triade produzione- consumo-rifiuti, questi ultimi un incubo in tutti i paesi, che comportano l’inquinamento senza sosta dell’aria, dell’acqua e della terra, e il cambiamento climatico è il risultato delle follie delle generazioni che ci hanno preceduto. “La società della crescita è una truffa; porta alla guerra di tutti controtutti e di tutti contro la Natura. Ogni giorno, ad una velocità impressionante, scompaiono delle specie viventi, a cominciare dalle api, una tragedia di cui anche il genere umano potrebbe essere vittima”. Per questo è necessario inventare un futuro sostenibile, auspicabilmente e felicemente in decrescita, ma cos’è
esattamente? “È una parola che ho utilizzato come slogan dal 2002 per contrastare l’altro, mistificatore, di sviluppo sostenibile”. La decrescita non è una soluzione, ma una matrice di proposte alla base delle quali c’è la diversità culturale che permette, a ciascuna realtà, una volta sollevata la cappa di piombo
del totalitarismo economico che ha omologato il pianeta, di inventare il proprio futuro. “Dopo la caduta del Muro di Berlino, il mondo è diventato globalizzato, dominato dal pensiero unico. Cominciamo a vivere da giardinieri e non più da predatori, ristrutturiamo i modi di produrre, abbandoniamo il capitalismo facendolo uscire dalla nostra testa, decolonizziamoci rilocalizzando, che non vuol dire solo produrre localmente, ma ritrovare il senso del radicamento nel territorio. Non viviamo in una società di abbondanza, ma di spreco e frustrazione, uno stato in cui dobbiamo vivere, come gli esperti di Marketing sanno bene, per farci diventare degli imbecilli che stanno in fila per una notte intera per avere l’ultimo modello di telefono. Riduciamo gli sprechi, gli orari di lavoro, ritroviamo il senso dei limiti, superiamo questa tossicodipendenza del produrre e consumare”. Rinnovare l’alleanza fra le province europee e globali e riconvertire l’agricoltura produttivista che non ha futuro, perché dipende dal petrolio, porrebbe già un freno alla fuga dei posti di lavoro. “Lavorare di più, per guadagnare di più. Ecco un’altra imbecillità. Contraddice la legge della domanda e dell’offerta; se si lavora di più, aumenta la domanda di lavoro e crolla il prezzo, perciò, più si lavora, meno si guadagna. La nostra idea non è quella proposta dall’articolo 1 della Costituzione Italiana; il lavoro di merda che propongono oggi porta a una vita di merda”. Lavoro, terra e denaro, che è un bene pubblico e non deve essere lasciato ad istituti privati come le banche, non si possono produrre: “dobbiamo riappropriarci della vita e del lavoro e non trasformarli in merci. La decrescita è una scommessa, non siamo sicuri di vincerla, ma vale la pena tentare”.
Simona Pasquale
e Renato Briganti, l’economista e filosofo francese Serge Latouche, Professore Emerito di Scienze Economiche all’Università di Parigi XI e all’Institut d’Études du Developement Économique et Social (IEDES) di Parigi, sostenitore della cosiddetta ‘Decrescita felice e del Localismo’, autore di un numero sterminato di saggi sull’Etica e l’Economia che mettono in discussione l’attuale modello economico capitalistico. Il 24 maggio, presso l’Aula G5 di Monte
Sant’Angelo, un nutrito pubblico di studenti, docenti e ricercatori ha partecipato ad una conversazione appassionante sulle categorie mentali e sociologiche che ci governano. “Si potrebbe anche dire ‘credere o non credere’ perché l’Economia è una religione. La crescita è una credenza basata sulla fede nel progresso. All’inizio della mia carriera, anch’io ero duro e puro. Poi ho perduto la fede, diventando pagano, e ora sono un profeta della decrescita – dice l’economista citando il paradosso del Presidente George W. Bush che suggerì alla conferenza dei meteorologi statunitensi, come soluzione al cambiamento climatico, un rimedio economico – Contro la fede, gli argomenti razionali non servono, sembrano blasfemi. Dobbiamo rinunciare alla sua illusione, potremmo dire alla sua impostura”. I termini crescita e sviluppo provengono dalla Biologia; associati, indicano il processo di ingrandimento e trasformazione di un essere vivente. Una dinamica che fa evolvere un processo quantitativo in uno qualitativo è un fenomeno bellissimo, che tutte le società umane hanno celebrato, ma, quando gli economisti hanno introdotto questi concetti nella scienza economica, lo hanno fatto con inganno. “Giambattista Vico vedeva le civiltà umane come organismi che, al termine del loro ciclo vitale, muoiono. Ma gli economisti hanno immaginato una crescita illimitata, ispirata alla meccanica newtoniana e ai suoi principi di reversibilità, incompatibili con un pianeta finito”. Il mondo concreto non obbedisce all’astrattismo della Matematica, ma alle leggi della Fisica, della Termodinamica e al suo Secondo Principio, il quale afferma che, una volta perturbato, un sistema non può tornare alle condizioni iniziali. Quando bruciamo trenta litri di petrolio in un’auto, questi non sono scomparsi, sono diventati gas serra. Il nostro modello sociale è finito negli anni ’70. Come per le stelle estinte, delle quali percepiamo ancora la luce, da oltre trent’anni ne sopravvive il mito, grazie al mago Alan Greenspan, Presidente dellaBanca Centrale Americana. All’orizzonte c’è un mondo dominato dalla disperazione, senza alcuna possibilità di finanziare lo Stato Sociale che sostiene la cultura, la salute argina la disoccupazione. La nostra società è basata sulla triade produzione- consumo-rifiuti, questi ultimi un incubo in tutti i paesi, che comportano l’inquinamento senza sosta dell’aria, dell’acqua e della terra, e il cambiamento climatico è il risultato delle follie delle generazioni che ci hanno preceduto. “La società della crescita è una truffa; porta alla guerra di tutti controtutti e di tutti contro la Natura. Ogni giorno, ad una velocità impressionante, scompaiono delle specie viventi, a cominciare dalle api, una tragedia di cui anche il genere umano potrebbe essere vittima”. Per questo è necessario inventare un futuro sostenibile, auspicabilmente e felicemente in decrescita, ma cos’è
esattamente? “È una parola che ho utilizzato come slogan dal 2002 per contrastare l’altro, mistificatore, di sviluppo sostenibile”. La decrescita non è una soluzione, ma una matrice di proposte alla base delle quali c’è la diversità culturale che permette, a ciascuna realtà, una volta sollevata la cappa di piombo
del totalitarismo economico che ha omologato il pianeta, di inventare il proprio futuro. “Dopo la caduta del Muro di Berlino, il mondo è diventato globalizzato, dominato dal pensiero unico. Cominciamo a vivere da giardinieri e non più da predatori, ristrutturiamo i modi di produrre, abbandoniamo il capitalismo facendolo uscire dalla nostra testa, decolonizziamoci rilocalizzando, che non vuol dire solo produrre localmente, ma ritrovare il senso del radicamento nel territorio. Non viviamo in una società di abbondanza, ma di spreco e frustrazione, uno stato in cui dobbiamo vivere, come gli esperti di Marketing sanno bene, per farci diventare degli imbecilli che stanno in fila per una notte intera per avere l’ultimo modello di telefono. Riduciamo gli sprechi, gli orari di lavoro, ritroviamo il senso dei limiti, superiamo questa tossicodipendenza del produrre e consumare”. Rinnovare l’alleanza fra le province europee e globali e riconvertire l’agricoltura produttivista che non ha futuro, perché dipende dal petrolio, porrebbe già un freno alla fuga dei posti di lavoro. “Lavorare di più, per guadagnare di più. Ecco un’altra imbecillità. Contraddice la legge della domanda e dell’offerta; se si lavora di più, aumenta la domanda di lavoro e crolla il prezzo, perciò, più si lavora, meno si guadagna. La nostra idea non è quella proposta dall’articolo 1 della Costituzione Italiana; il lavoro di merda che propongono oggi porta a una vita di merda”. Lavoro, terra e denaro, che è un bene pubblico e non deve essere lasciato ad istituti privati come le banche, non si possono produrre: “dobbiamo riappropriarci della vita e del lavoro e non trasformarli in merci. La decrescita è una scommessa, non siamo sicuri di vincerla, ma vale la pena tentare”.
Simona Pasquale