La voce dei migranti etiopi sullo schermo dell’Astra

“Questa storia dovrebbe cominciare 100 anni fa quando i nostri bisnonni si sono conosciuti, quando l’Italia invase prima la Libia e poi l’Etiopia”: con queste parole Dagmawi Ymer, protagonista del documentario ‘Come un uomo sulla terra’, inizia il suo racconto. Dagmawi studiava Giurisprudenza ad Addis Abeba quando nel 2005, per la repressione politica in Etiopia, decise di emigrare. Oggi è rifugiato politico, regista e intervistatore nel film di Riccardo Biadene e Andrea Segre realizzato dall’Associazione Asinitas e proiettato il 19 novembre all’Astra grazie alla collaborazione de L’Orientale, della Federico II, dell’Osservatorio EuroMediterraneo e del Mar Nero e del Centro Europeo Informazione, Cultura e Cittadinanza (CEICC). Il docu-film, vincitore della 2° edizione del concorso internazionale Salina Doc Festival 2008, ha richiamato un folto pubblico interessato a rendersi conto di cosa realmente accada a chi decide di attraversare il deserto tra Sudan e Libia con la speranza di solcare il Mediterraneo.
Platea e galleria del cinema sono gremiti per un film che ripercorre un viaggio. “Registra la storia di etiopi che lasciano casa, affetti, incontrano un’altra cultura e tentano di inserirsi nella nostra società. Questi uomini superano confini territoriali, culturali, religiosi, linguistici – afferma il prof. Alessandro Triulzi – Il terribile trattamento riservato loro in Libia affonda le radici anche nel nostro passato coloniale e, quindi, nei rapporti postbellici che l’Italia ha dovuto instaurare con uno Stato resosi indipendente”. “Il film mostra la pessima politica dei governi di destra e di sinistra nei confronti dell’immigrazione. Stiamo vivendo una mutazione del mondo di cui non vogliamo ancora prendere atto – sostiene il critico cinematografico Goffredo Fofi – Non si tratta solo di piangere sulle miserie altrui, bisogna considerare le corresponsabilità”.
Conoscere le sopraffazioni e le violenze a cui gli etiopi vengono sottoposti dalla  polizia libica e dai contrabbandieri è il primo passo per capire la reale condizione dei migranti. Ascoltare dalla loro voce il racconto di arresti indiscriminati e di deportazioni disumane induce a riflettere sulle modalità con cui la Libia sta operando il controllo dei flussi migratori dall’Africa, per conto e grazie ai finanziamenti di Italia ed Europa.
Una realtà nascosta
“Il pregio di questo documentario è farsi testimonianza al presente – spiega Gianluca Gatta, dottore di ricerca de L’Orientale – Mostra quello che sta accadendo oggi a migliaia di persone che stanno attraversando la Libia”. “Siamo un Paese multiculturale. La nostra storia sociale sta cambiando e molti non se ne accorgono. Il nostro contributo è far conoscere il fenomeno – ribadisce il dott. Fabio Amato, ricercatore a L’Orientale – Ad ogni limite che l’Occidente pone, le organizzazioni criminali trovano nuovi escamotage. Spesso i governi giocano con la paura che si ha dell’’altro’. Ma solo la conoscenza dell’altro può contribuire fattivamente al cambiamento”. Per il prof. Raffaele Porta, Presidente dell’Osservatorio EuroMediterraneo e del Mar Nero, bisogna rompere il silenzio su quanto sta accadendo in Libia: “E’ un argomento sottovalutato. In pochi sanno come vivono prima di attraversare il Mediterraneo. Il Governo italiano e le Associazioni internazionali se ne occupano poco o in maniera sbagliata. La Comunità Europea spende grosse cifre per il controllo ma i responsabili o non vigilano o non fanno nulla per arginare il fenomeno”. L’interesse che ha suscitato il documentario è tale da richiedere che si continui a diffonderlo: “E’ stata una serata ben riuscita, il numero di giovani presenti lo testimonia. Con l’Asinitas cercheremo di organizzare ulteriori proiezioni in città, per esempio nelle scuole. Da questa iniziativa dovranno scaturire una serie di dibattiti e tavole rotonde”. Anche la dirigente del CEICC Marialuisa Vacca sta già pensando a coordinare analoghe occasioni di sensibilizzazione: “La proiezione è stata organizzata in poco tempo e a costo zero. Ha avuto un successo enorme grazie alla rete di enti che vi hanno collaborato”. 
In sala c’è chi è rimasto perplesso per la scarsa percezione che l’opinione pubblica ha del fenomeno, visto che la stampa, che si definisce libera, non aiuta a smascherarne appieno gli aspetti schiavistici, e c’è anche chi ritiene che mancano spazi da condividere con gli immigrati: “Abbiamo bisogno di luoghi in cui poterli incontrare, frequentare, relazionarci con loro su di un piano di parità”. “E’ bello che il documentario sia raccontato dagli etiopi e non dagli italiani – commenta Anna Benedetto, una delle tante studentesse presenti del Corso di Laurea in Relazioni internazionali – Mi ha sconvolto il trattamento che hanno subìto ma è ancor più assurdo che venga finanziato dagli accordi italo-libici”. “Mi ha colpito l’alto livello di istruzione degli immigrati. Affrontano viaggi degradanti in container che ricordano quelli dei deportati in viaggio verso i campi di sterminio”, replica Noemi Corbelli che frequenta il Corso di Relazioni interetniche. “Non sapevo del traffico interno alla Libia, eppure leggo sempre i giornali”, afferma Maria Sessa, studentessa del II anno che ha appena firmato la petizione per mostrare il documentario al Parlamento Europeo. 
L’immagine più toccante per gli studenti è quella che ritrae lo sguardo che i clandestini, appena sbarcati, rivolgono ai turisti sulla banchina del porto di Lampedusa. “Il giorno prima eravamo tra la vita e la morte mentre lì vedevo un mondo che si divertiva – racconta Dagmawi, divenuto ormai Dag per i ragazzi – Mi aspettavo che la vita in Italia sarebbe stata difficile ma non immaginavo così difficile. Non avrei mai pensato di divenire il soggetto della discussione politica”.
Manuela Pitterà
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