Manfredi: il rischio “sotto il profilo culturale, è che i Dipartimenti possano diventare autoreferenziali”

A tre anni dall’entrata in vigore del decreto Gelmini, è tempo di riflessioni e di primi bilanci relativi alle prime conseguenze di attuazione della riforma. Questo è stato l’obiettivo della Giornata di studi organizzata dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II, dal titolo “Dalle Facoltà ai Dipartimenti”, svoltasi il 14 ottobre nell’aula Pessina. Ad aprire la sessione mattutina, l’intervento del Prorettore Gaetano Manfredi che è partito dagli aspetti positivi conseguenti l’entrata in vigore della legge 240: “la riforma ha dato vita a Dipartimenti più grandi e questo oggi è un vantaggio perché prima i progetti di ricerca erano troppo parcellizzati, in virtù delle ridotte dimensioni. Tuttavia, questo potrebbe comportare anche il rischio, sotto il profilo culturale, che i Dipartimenti possano diventare autoreferenziali, come se fossero delle piccole Facoltà, senza più quel dialogo interdisciplinare che è il fondamento del fare ricerca contemporaneo”. Si sofferma sulle criticità il prof. Fabrizio Lomonaco: “anche se il numero degli iscritti agli studi umanistici è incrementato, resta ancora molto forte il divario tra immatricolati e laureati”. Il docente ha poi sottolineato la necessità di stabilire dei criteri precisi in merito all’ampiezza dei Dipartimenti, onde evitare il fenomeno del “gigantismo” e dell’urgenza del turn over con il reclutamento di nuove risorse. “È importante – sottolinea Lomonaco – anche l’adeguamento della didattica in termini di aggiornamento dei programmi e nell’uso di strumenti più moderni come l’e-learning e il counselling”. Guido Baldassarri, docente dell’Università di Padova, ha invece riportato, come spunto per una riflessione più ampia, il caso del suo Ateneo, asserendo in linea generale che “la conseguenza più evidente dell’applicazione della legge 240 è stata quella che, effettivamente, non si sono tanto creati nuovi Dipartimenti quanto, invece, è avvenuta la trasformazione delle esistenti Facoltà nei Dipartimenti. In questo modo si è messo in secondo piano la ricerca che rappresentava uno dei fondamenti del decreto Gelmini”. Altro problema – sottolinea il professore – il moltiplicarsi dei Corsi interdipartimentali, “che rappresentano un costo elevato per il Dipartimento di competenza”. Il moltiplicarsi dei Dipartimenti, ha proseguito Baldassarri, ha creato problemi soprattutto “nell’organizzazione delle segreterie didattiche, che, non potendo incrementare l’organico, hanno notevoli difficoltà nello svolgere i loro compiti”. Proprio sulla mancanza di fondi, necessari alla piena ed efficace attuazione del decreto, si è soffermato il prof. Eugenio Mazzarella: “fermate gli innovatori perché così non andiamo da nessuna parte. Ogni governo, generalmente, inverte logiche consolidate nel tempo, ma se non ci sono le risorse sufficienti per la ristrutturazione del sistema universitario si verifica, in realtà, una destrutturazione”. Il Dipartimento, aggiunge Mazzarella, nasce come una necessità, perché con l’avvento dell’Università di massa le Facoltà non riuscivano a fare più ricerca: “Compito del Dipartimento è quello di fondere didattica e ricerca, ma spesso quest’ultima prerogativa oggi è lasciata in secondo piano”. Anche il prof. Giovanni Polara ripercorre quella che è la storia della nascita del Dipartimento: “le sue origini sono da rintracciare nel 1972, prima quindi della legge del 1980, con l’esempio dell’Università della Calabria. Questa strutturazione era improntata al modello del campus americano con una grande vocazione alla sperimentazione”. Il rischio di oggi: “la liceizzazione dell’Università, basti pensare alla gran parte dei testi in uso, molto simili a quelli del liceo”. Ha concluso con una nota positiva la sessione mattutina il prof. Arturo De Vivo: “la nuova struttura dipartimentale prevede il 15% di presenze studentesche, un numero elevato all’interno della Commissione paritetica. Questo è un dato importante in merito alla volontà di una revisione didattica che tenga conto anche del parere degli studenti”. Per quanto riguarda il rapporto con le aziende: “l’Università non ha mai subito alcun condizionamento esterno. I contatti con le aziende esterne sono con l’unico fine di garantire agli studenti maggiori sbocchi lavorativi”.
Arianna Piccolo
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