Moccia, figlio del ’68: l’utopia “un luogo che si raggiunge un po’ alla volta”

40 anni e più trascorsi fra le aule universitarie. Con una peculiarità: la considerazione degli studenti. Il prof. Sergio Moccia è dal 1° novembre in pensione, tuttavia è ancora in aula a tenere il corso. “Ho chiesto ed ottenuto una ‘proroga’, un contratto d’insegnamento per un altro anno – spiega il docente di Diritto Penale – Gli studenti sono sempre stati la mia vita, li reputo giudici inflessibili. Al mio corso non ci sono mai stati sconti o 3×2, anzi in sede d’esame ho sempre preteso molto dal corsista, perché doveva conoscere di più. Nonostante questo, ho ancora l’aula piena e ragazzi che a distanza di anni mi ringraziano. Non c’è soddisfazione maggiore”. Laureato nel 1970 alla Federico II, il docente ha sperimentato diverse strade prima di ritornare a casa. “Nel ‘74 sono andato in Germania, dovevo restarci 6 mesi, invece ho lavorato lì per 8 anni. Sono diventato professore, e quando mia figlia iniziava a parlare ormai solo tedesco sono stato chiamato dal mio mentore Dario Santamaria, Maestro di Penale, che reclamava la mia presenza a Napoli”. Molto combattuto: “alla fine sono stato preso dalle corde del cuore e sono rientrato però a Salerno, come ricercatore. Sono stato in quella Facoltà 14 anni, è stato un periodo che ricordo con affetto, soprattutto per i colleghi e le future generazioni di giuristi che ho incontrato. Studenti che di lì a qualche anno sarebbero diventati miei colleghi e docenti, come i professori Carlo Longobardo, Antonio Cavaliere e Valentina Masarone”. Rientrato definitivamente alla Federico II nel 1999, “ho continuato la mia carriera da docente in questa Facoltà splendida. Non ho mai smesso di studiare, né di stare dalla parte dei ragazzi. Di certo, però, le cose sono cambiate nel corso del tempo”. In che modo? “Fino a qualche tempo fa criticavo la minor voglia di studiare da parte degli studenti – afferma – Agli esami, a ricevimento, ho avuto poi delle percezioni diverse. Probabilmente i ragazzi pensano alle ridotte e scarse attività lavorative che possono trovare nel post laurea. Questo scatena a livello di subconscio un disimpegno”. Durante gli anni ed i viaggi effettuati, “ho maturato l’idea che i giovani sono tutti uguali, in tutto il mondo. Il problema si riduce nell’avere chance diverse, nei diversi Paesi in cui si vive. Per questo non mi sento di condannare i ragazzi, hanno la mia totale comprensione. L’Università dovrebbe farsi carico di queste situazioni e cercare di porvi rimedio”.
“Non si vince da soli”
Il professore ha la fama di essere sempre stato un rivoluzionario. “E lo sono – ammette candidamente – Riconosco di essere un sovversivo, sono figlio del ‘68 e ho sempre pensato che un’utopia non fosse una meta fissa, ma un luogo che si raggiunge un po’ alla volta, con sforzo, durante il processo di avvicinamento”. Un po’ come più di 20 anni fa, quando “spaccai Giurisprudenza in due. Ero stato eletto rappresentante dei ricercatori e mi schierai, durante un Consiglio di Facoltà, a favore di un ricercatore a cui non si voleva riconoscere la presa di servizio. Ricordo i commenti dei docenti storici, alla fine però mi diedero ragione. Perciò dico ai miei ragazzi: quando si combatte per il giusto, le soddisfazioni poi arrivano”. Ricordi, invece, legati agli studenti: “Tantissimi. Spesso mi ritrovavo il ricevimento intasato di giuristi. Alcuni erano lì per chiedere consigli, altri mi confidavano le loro ansie o passavano a salutarmi per ricevere conforto. Questa è la cosa che mi rende più orgoglioso, sono stato per i giovani, durante gli anni, prima una persona e solo poi un docente”. Come quella volta che: “incontrai una mia studentessa che si era laureata e viveva in Norvegia. Faceva la cameriera e aveva perso la strada del diritto. In quel frangente la spronai ad assumersi le sue responsabilità e con l’andar del tempo è ritornata in uno studio legale. Vede, – dice quasi sottovoce – con impegno, fatica e a volte sofferenza, perché no, si arriva dove si vuole”. Ai ragazzi di oggi suggerisce: “Ragionate ed agite collettivamente, non si vince da soli, ma insieme. Ponetevi una meta e sulla base del giusto richiedete attenzione. L’isolamento determina disaffezione, essere preparati, forti e solidali, invece, contrasta quell’aura strana che c’è di mancanza di prospettiva”. Pensare al vulcano Moccia come un ‘pensionato’ fa un certo effetto: “Non mi ci vedo affatto in queste vesti, non mi sento un pensionato. Non sono stanco, al contrario, al mattino entro in aula con lo stesso entusiasmo di anni fa. Per ora non sono pronto ad andare via, sento che ho ancora qualcosa di importante da dire”.
Susy Lubrano
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