Mogol in cattedra per una lezione sui linguaggi della creatività

‘Tu chiamale se vuoi emozioni’. Un inciso scolpito nella memoria collettiva che fa da leitmotiv a un pomeriggio ricco di sorprese calato in una location d’eccezione, il Complesso dei Santi Marcellino e Festo della Federico II, nella giornata di giovedì 16 novembre. Oggetto dell’incontro il seminario su ‘I linguaggi della creatività’. E chi se non meglio di Mogol per il connubio tra musica e parole? Attesissimo, infatti, da una platea gremita – più di cento i presenti – l’arrivo del paroliere per l’incontro, promosso dall’Osservatorio Territoriale Giovani del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Ateneo, in collaborazione con Optima Italia, nell’ambito delle attività di StartUp Music Lab. A presentarlo interviene il prof. Lello Savonardo, docente di Comunicazione e Culture giovanili, tracciando in breve il profilo di “un autore e produttore discografico, capofila del panorama musicale italiano, che ha raccontato attraverso la scrittura poetica la popular music degli ultimi 50 anni intercettando i fermenti sonori dell’Italia nel mondo”. È la motivazione che precede la consegna del Sigillo federiciano al Maestro Giulio Rapetti, “per il rilevante ruolo svolto nell’ambito dell’industria culturale italiana”, commenta il Prorettore Arturo De Vivo. Che prosegue: “abbiamo voluto omaggiare un celebre artista con il nostro simbolo più significativo, il Sigillo che l’Imperatore svevo appose sulla bolla che 793 anni fa istituiva la nascita dello Studio napoletano, l’Ateneo più antico del Mezzogiorno e la prima Università laica d’Europa”. Il suo più grande merito è: “aver modificato il linguaggio e la comunicazione del nostro tempo”, con parole che sono diventate citazioni e slang del quotidiano, da ‘Non sarà un’avventura’ a ‘Lo scopriremo solo vivendo’. “Sono onorato di ricevere un riconoscimento così prestigioso e mai me lo sarei aspettato, io che sono stato bocciato all’Esame di stato proprio in italiano. ‘Fuori tema’, mi dissero. È da allora che ho capito di essere ossessionato dalla vita e ho cominciato a raccontarla nelle mie canzoni, con sincerità”, afferma un Mogol emozionato. Impossibile non accennare al fortunato sodalizio con Battisti sulle note de ‘I giardini di marzo’ su cui parte un applauso spontaneo. “Oggi Battisti è qui con noi”, continua commuovendosi ancora. E in questo sta la differenza “tra un vero interprete, di livello internazionale, e chi invece non sa cantare, come si vede oggi nei talent tipo X factor”, perché quella musica ha attraversato le generazioni di mezzo secolo. “Tant’è che – prende la parola Red Ronnie, noto conduttore televisivo e critico musicale italiano – i giovani intorno al fuoco cantano ancora la ‘Canzone del Sole’, un inno immortale all’amore”. Ciò che può stabilire il valore di un prodotto artistico è, infatti, solo il tempo, a detta del paroliere, definizione peraltro che dichiara francamente di non amare. Una riflessione questa che eleva il linguaggio dell’arte a strumento di narrazione attraverso le epoche. Prova ne sia che i testi firmati da Mogol – si pensi anche a Celentano, Cocciante o Vasco Rossi – “portano un marchio inconfondibile: il pregio di aver colto le trasformazioni socioculturali in corso riversandole nella scrittura creativa col tramite della cosiddetta canzone d’autore”, diversamente da “meteore che fanno la loro apparizione a Sanremo, per poi cadere nell’oblio”. Interrogato a proposito del Nobel conferito a Bob Dylan, Red Ronnie gli chiede: “Erano testi così straordinari?”. La risposta è inevitabilmente affermativa. “Un Premio che è arrivato dopo 20 anni di candidature da parte dell’Accademia. Per me, l’ha meritato. Dylan è stato il primo che, rompendo gli schemi e contaminando letteratura e musica, ha cambiato il modo di cantare”. L’impronta poetica del Menestrello americano ha segnato un decisivo spartiacque sulla scia della Beat generation, “facendosi portatore di una controcultura in cui l’espressione vocale ha perso terreno a favore della possibilità di narrare emozioni grazie al testo”. Una tendenza che, spiega Mogol, non deve sorprendere. “Attingere al mainstream non è mica un fatto di oggi. Dante ha scritto in volgare, non nella lingua dei dotti. Shakespeare non scriveva nella lingua delle élite. Questo perché la cultura non s’inventa nell’Accademia, ma risuona prima sulla bocca del popolo”. E la città partenopea è il luogo giusto per rilanciare la cultura popolare. Altra novità che ricondurrà qui presto l’autore milanese è proprio il Festival di Napoli, “dove mi piacerebbe portare avanti un discorso sulla qualità del genere pop. In questo momento storico, abbiamo bisogno di canzoni di un certo spessore”. Ragione principale che ha spinto Mogol alla creazione di una Scuola in Umbria in cui insegna composizione. “Perché, l’arte si può insegnare?”, gli chiede ancora Ronnie. “Tutto si può assorbire. Leonardo non sarebbe mai stato un genio senza il tirocinio presso la bottega del Verrocchio”. Dopo l’intervista, l’ospite si accattiva la simpatia dell’uditorio tenendo una lezione in cui confronta gli stili di canto in una spola tra Italia e America. Menzionati i nomi di Claudio Villa, Elvis Presley, Nilla Pizzi, Nicola Di Bari, Frank Sinatra, fino alle mode di oggi. Piuttosto, come cantare bene? “Bisogna essere sinceri e non ostentare la voce. Essere credibili, parlare veramente, essere dentro la vita. Perché una canzone arriva solo quando musica e parole percorrono la stessa strada: quella del sentimento. È lì che s’incanta l’ascoltatore”. La sintesi con cui Mogol conquista lo scroscio finale di applausi. Il suo ultimo pensiero è un elogio al compianto Mango, “un animo davvero puro”.
Sabrina Sabatino
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