Motivazione, impegno e viaggi per imparare l’Arabo

“È un professore che ama la sua materia”, è la prima considerazione che viene in mente a chi ascolta il prof. Giovanni Canova parlare della lingua che insegna a L’Orientale, l’arabo (Letteratura, Lingua 1, 2 e 3, Lingua e Cultura araba 2 e Storia contemporanea dei Paesi arabi). Mentre i suoi alunni svolgono il compito per l’esame di Arabo 2, 3 e Specialistica scritto, il docente racconta del suo amore per questa lingua sicuramente difficile da imparare. “Nel 1971 insegnavo alla Cà Foscari di Venezia – dice – nel 1975 ho avuto un primo approccio con i poeti epici di tradizione orale, in Egitto, poi nel 1978-79 ho preso un anno di congedo per dedicarmi allo studio dell’epica araba, non molto trattata nei libri”. Così comincia a raccontare della sua lunga esperienza nel governatorato di Quena, insieme alla moglie (anche lei studiosa di arabo). “Io mi dedicavo alla parte riguardante le tradizioni, i canti di lavoro e tutti i contesti nei quali c’è la presenza della musica, e mia moglie si occupava della parte femminile e delle fiabe – spiega il professore – la parte più difficile è inserirsi in quelle società, arrivare ad un livello di confidenza e di fiducia al punto di poterli registrare. È passato molto tempo prima di riuscire a far capire che io cercavo di valorizzare le loro tradizioni prima che scomparissero o si modificassero”. Quindi il professore ha trascorso molto tempo seguendo e ripercorrendo le strade percorse dai Banu Hilan, una tribù nomade che nel nono secolo cominciò ad emigrare verso l’Egitto fino in Tunisia, dove furono scacciati per i danni che producevano: al loro passaggio erano soliti distruggere tutto quello che trovavano. Da questi fatti storici nascono le vicende narrate nell’epica araba: “l’epica nei paesi arabi è suonata e il poeta è il professionista che apprende dal padre le storie da cantare. Le parole non vengono tutte imparate a memoria ma, di solito, si apprende un canovaccio, una base sulla quale loro improvvisano”. Ricorda due professori che l’hanno aiutato nella sua esperienza: il prof. Diego Carpitella, etnologo ed etnomusicologo italiano che ha insegnato all’Università di Roma “La Sapienza”, e il prof. Alberto Mario Cirese, che si occupava di tradizioni popolari ed è stato il primo coordinatore del corso di Dottorato di ricerca in Scienze etnoantropologiche sempre alla “Sapienza”. “Fu il professore Cirese – racconta – che allora dirigeva una collana di dischi endografici ‘suoni’ a propormi di fare poi un disco con le musiche che riuscivo a registrare. Lo stesso professore mi disse che non potevo fare una ricerca se prima non avessi conosciuto il contesto sociale in cui stavo per dirigermi”. Infatti, di questo suo studio oggi, oltre che il disco, esiste un documentario, girato in modo non professionale, che il professore a volte mostra ai suoi studenti. “Non lo mostro a tutti. Oggi, non tutti i miei studenti potrebbero fare quello che feci io senza essere accompagnati da una persona del posto. Non è facile, è pericoloso stare nel deserto, bisogna apprendere il dialetto che all’università non si insegna, ci vuole disponibilità a vivere con quelle persone e una capacità non sempre innata nel parlarci”. 
Il professore sa che lo studio dell’arabo non è semplice: “È una lingua che non si può imparare completamente. Noi facciamo quello che possiamo per fornire delle basi, ma tutti gli studenti devono farsi un esame di coscienza prima di cominciare a studiarla. Già nella società di oggi ci sono dei forti preconcetti che legano l’arabo al fanatismo che distolgono gli studenti nel decidere di intraprendere studi del genere. Poi, non tutti quelli che lo fanno arrivano alla fine”. E’ una cultura molto diversa dalla nostra ed è per questo che secondo lui i lettori dovrebbero essere tutti madrelingua. Inoltre, spiega che per riuscire ad arrivare alla fine occorrono “motivazione, impegno, costanza, viaggi in estate per studiare la lingua sul posto”.
Marilena Passaretti
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