Pet Therapy, l’innovativo modello della Federico II

La Pet Therapy non si traduce nell’accarezzare un animale o prendersi cura di un cavallo ma è un vero e proprio processo terapeutico. Ed è a Napoli, al Dipartimento di Medicina Veterinaria della Federico II, che si stanno definendo gli attori di questo processo e le sue modalità. È il modello studiato dall’équipe della prof.ssa Francesca Menna e che sta facendo da pioniere in questo settore. Docente di Malattie infettive degli animali domestici, la prof.ssa Menna ha inizialmente rivolto i suoi studi verso la patologia aviaria, è stata anche Direttrice della Scuola
di Specializzazione in Patologia e Tecnologia delle Specie Avicole, del Coniglio e della Selvaggina nel triennio accademico 2005-2008, nonché responsabile di diversi progetti scientifici e di seminari in università europee ed americane. Oggi, però, il suo lavoro è concentrato sulla terapia assistita con gli animali ed è a capo del team che ha elaborato un nuovo modello di Pet Therapy presentato in un volume monografico lo scorso luglio e attraverso un documentario diretto da Carmine Luino e Federica Riccio. “Il nostro gruppo di ricerca è formato da un veterinario e da una psicoterapeuta borsisti di Sinapsi, da due veterinari, tra cui una dottoranda che attualmente si trova a Vienna al Centro di Etologia Comparata Konrad Lorenz per studiare la comparazione visiva tra uomo e animale, e un veterinario del CRIUV (Centro Regionale di Igiene Urbana Veterinaria), perché siamo tra i primi in Italia a offrire interventi di Pet Therapy nella sanità pubblica”.
L’animale è “co-terapeuta”
Ma qual è il modello proposto dalla prof.ssa Menna? In che modo rivoluziona il concetto di Pet Therapy? “Il nostro modello innovativo, che ha riscosso tanto interesse in ambito accademico nazionale, si basa su una visione multidisciplinare che rappresenta una novità anche per il ruolo e la modalità con cui formiamo i professionisti del settore. Il ruolo della Pet Therapy viene spesso frainteso: basta che si accarezzi un animale in ospedale perché si parli di questo approccio. Una divisione importante che noi facciamo, invece, è tra la terapia occupazionale mediata dagli animali e la terapia con gli animali”. Ad esempio, spiega la docente, la comunità di San Patrignano adotta, nell’ambito del programma di recupero dei ragazzi con problemi di tossicodipendenza, “la terapia occupazionale perché nell’andare a pulire una stalla non c’è interazione con l’animale che non restituisce niente, è solo un soggetto passivo”. La Pet Therapy, invece, necessita della presenza di un animale nel ruolo di co terapeuta, come evidenzia il protocollo elaborato alla Federico II: “Il nostro modello si basa sulla visione di équipe.
C’è un gruppo che lavora sulle patologie umane ed il suo focus è la presenza dell’animale, al fianco del veterinario e dello psicoterapeuta”. Animale con cui “l’essere umano è co-evoluto, per cui abbiamo acquisito una condivisione di linguaggi che diventa utile ai fini terapeutici”. All’animale, in questo caso al cane, “viene affidata una competenza che è quella di essere il lettore del linguaggio non verbale e di fare da cassa di risonanza emotiva. Il cane restituisce velocemente, con il suo comportamento, quello che sta accadendo all’interno di un setting terapeutico. La lettura di un veterinario, formato a questo scopo, può dirigere la terapia seguendo questi segnali”. Il cane diventa, quindi, un tramite, un ponte comunicativo, tra il malato e il terapeuta, e si fa portavoce delle emozioni del paziente. “Il nostro sguardo è sistemico: non è solo rivolto all’uomo. Il cane non è uno strumento nelle nostre mani. Si sviluppa, invece, una reciprocità in una relazione circolare, nella quale il cane ci restituisce qualcosa, e il suo linguaggio lascia al paziente qualcosa di utile ai fini terapeutici”. Il cane, infatti, aggiunge la docente, “è un archetipo che abbassa le difese: rappresenta la fedeltà, la fiducia. Ad esempio, se a persone che non si conoscono si dice di abbracciarsi, vince l’imbarazzo; se entra in scena un cane questa barriera emozionale si abbassa e si apre un canale emotivo. Ed è proprio utilizzando questa apertura che si lavora a livello terapeutico”. Perché il modello sia realizzabile, però, occorrono professionalità ben strutturate: “il veterinario deve avere una formazione interdisciplinare, avere conoscenze su ciò che mette in campo durante la terapia; così come lo psicoterapeuta
deve conoscere le dinamiche etologiche dell’animale. Ogni professionista deve conoscere il linguaggio dell’altro”.
Mimo e yoga per acquisire consapevolezza corporea
Una visione evoluta di Pet Therapy che trova il suo incipit formativo nel Master in Zooantropologia Esperenziale, attivato da tre anni alla Federico II e di cui la prof.ssa Menna è coordinatrice: “lavoriamo in particolare con il cane e con gli asini. Animali di specie diverse sollecitano modalità di relazione diverse. Diversità, naturalmente, ci sono anche nella stessa specie. Ecco perché la scelta dell’animale è a monte di un intervento. Ci devono essere professionisti formati che scelgono l’animale e fanno educazione. Gli interventi devono essere sicuri e prevedibili”. Con il Master (per veterinari, psicologi e medici: i membri di un équipe di terapeuti), sottolinea la docente, “diamo rigore metodologico alla terapia”. Il Corso è molto particolare e rappresenta anche esso una novità: “Proprio perché il cane è il lettore del linguaggio non verbale, lo strumento che si utilizza con persone con difficoltà cognitive, noi facciamo non solo formazione con lezioni frontali e con l’animale, ma prevediamo anche percorsi di consapevolezza corporea, e quindi emotiva, dei nostri allievi con lo yoga o con le tecniche di mimo”. Una formazione a 360 gradi per lavorare in équipe con soggetti con disturbi comportamentali, con i bambini autistici, con gli anziani affetti da alzheimer o parkinson ma anche nelle scuole per contrastare fenomeni come il bullismo. “Abbiamo una collaborazione con il Centro Sinapsi della Federico II per borse di studio. Molti miei ex studenti si sono riuniti in associazioni o si sono aggregati tra loro. Ad esempio, alcuni stanno lavorando al Centro di riabilitazione Manzoni, dove avevano svolto il tirocinio. La direzione sanitaria ha chiesto di continuare a prestare la loro opera da liberi professionisti. Altri erano partiti come associazione al Giffas di Bagnoli e lì stanno continuando con attività privata. Inoltre, stiamo lavorando in équipe al Centro regionale di riabilitazione per l’Alzheimer e con i malati di Parkinson nella sanità pubblica, stiamo attivando protocolli per la riabilitazione psicologica di bambini in case-famiglia. Si stanno creando figure professionali nuove e stiamo cercando di sollecitare la sanità regionale in questa direzione”.
Figure professionali in attesa di riconoscimento legislativo
Purtroppo queste figure non sono state ancora ben recepite dalle istituzioni: dopo la definizione di alcune linee guida, approvate in Conferenza Stato Regioni, ma contestate da molti accademici, in Campania manca una Legge Regionale. “Il 5 novembre ci si riunirà a Napoli per discutere e per immaginare un Centro interdipartimentale di
tutte le realtà accademiche che lavorano sugli interventi assistiti dagli animali per studiare queste linee guida e produrre ‘massan critica’. Le linee guida sono, infatti, molto carenti – spiega la prof.ssa Menna – rispetto alle responsabilità e alla formazione. Ad esempio, parlano di percorsi formativi che non rispecchiano le caratteristiche
dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) e, quindi, non potranno essere riconosciuti. Inoltre, sul piano delle responsabilità prevedono la figura del veterinario solo prima e dopo la terapia, non durante: mentre è proprio in corso d’opera che c’è il pericolo e il veterinario è l’unico che può farsi carico delle responsabilità penali e civili. Queste linee guida immaginano il cane come un ‘farmaco’ da somministrare, mentre stiamo parlando di una terapia dove ‘il processo’ è importante. La base epistemologica del modello federiciano è basata sulla teoria della complessità e questo è uno dei cardini del nostro protocollo”.
Valentina Orellana
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