L’Orientale, prima Università in Italia e una delle prime in Europa ad aprire un corso di coreano. Dal 1990 è il prof. Maurizio Riotto a insegnare la lingua, la storia e la letteratura della Corea. Dietro di sé un passato da classicista con una Laurea in Lettere, seguita da una Specializzazione in Archeologia Orientale, dulcis in fundo coronata dagli studi linguistici. Ha vissuto a lungo in Estremo Oriente, mentre oggi si divide tra Napoli e Palermo, città quest’ultima dove vive. Ad oggi è tra i pochi studiosi in Italia ad aver tradotto numerose opere di scrittori coreani classici e contemporanei, spalancando le porte di una realtà culturale da noi distante diecimila chilometri. Oltre 150 le sue pubblicazioni scientifiche e didattiche che gravitano intorno al Paese del calmo mattino, alcuni di questi libri – dalla Storia della letteratura a quella della Corea – tra l’altro sono stati i primi nel loro genere apparsi nel mondo
occidentale. Nel 2011 il docente, per l’eccelso contributo fornito, attraverso la ricerca e l’insegnamento, alla diffusione degli studi coreani, ha ricevuto con decreto del Presidente della Repubblica di Corea la Medaglia d’Onore al Merito Culturale. E oggi con estrema umiltà qui si racconta, spogliandosi dalle vesti e dai meriti di professore, del resto – come lui stesso afferma – “un docente non è altro che uno studente più vecchio”. Come è nata la sua passione? C’è stata un’illuminazione sulla via dell’Oriente che l’ha spinta ad approfondire una cultura così lontana dalla nostra? “Ho fatto il liceo classico negli anni ‘70, in piena disillusione post-sessantottista. C’era molta voglia di ‘scappare’, ma nello stesso tempo ‘cercare’, dando alla fuga una dimensione spirituale, realizzativa e totalizzante. Confondersi col mondo e annullarsi in esso per unirsi all’anima universale era un desiderio latente in molti adolescenti. In più, lo studio della classicità, che geograficamente s’interrompeva al limite delle conquiste di Alessandro e ai confini dell’India, mi appariva come un percorso di conoscenza lasciato a metà, spingendomi irresistibilmente a conoscere l’altra faccia del mondo, ossia le culture dell’India stessa e dell’Estremo Oriente”.
Cosa l’ha affascinata a suo tempo della Corea? E secondo lei cosa affascina i giovani d’oggi? Si può parlare di una nuova ‘Korean wave’? “Sulla Corea all’epoca si sapeva pochissimo. Tuttavia, percepivo già che questo paese doveva presentare una civiltà particolarissima, frutto di secoli di contaminazioni
culturali rielaborate in chiave indigena. Oggi, però, si assiste al triste fenomeno dei giovani interessati non tanto alla cultura tradizionale, ma a modelli puramente consumistici sponsorizzati ed esportati da governi interessati innanzitutto al ritorno economico. Ai governi sudcoreani sta bene, finché ‘drama’ e ‘K-POP’ portano soldi, ma questo ha finito per generare un interesse per qualcosa di assolutamente artificiale e con ogni probabilità anche di durata effimera”. Quanti in media scelgono quest’insegnamento? Il trend è in crescita negli ultimi anni? “Quando cominciai a insegnare, in classe c’erano due studenti, oggi ci sono circa 150 nuovi iscritti all’anno, con tendenza all’aumento. La cosa ovviamente mi fa piacere, ma di fronte alle motivazioni di molti
studenti non posso che provare perplessità; la stessa perplessità, del resto, che i colleghi yamatologi devono aver provato di fronte a un uditorio la cui scelta era stata soprattutto dettata dai ‘manga’. A me piacerebbe che queste conoscenze venissero inserite nell’ambito di un serio interesse per la cultura e la storia del paese che ha prodotto tali fenomeni. Purtroppo non sempre è così, e le classi di coreano di tutto il mondo presentano una certa percentuale
di ragazzini capaci solo di sospirare per i loro ‘idols’ senza impegnarsi eccessivamente nello studio, vissuto come passatempo snob”.
occidentale. Nel 2011 il docente, per l’eccelso contributo fornito, attraverso la ricerca e l’insegnamento, alla diffusione degli studi coreani, ha ricevuto con decreto del Presidente della Repubblica di Corea la Medaglia d’Onore al Merito Culturale. E oggi con estrema umiltà qui si racconta, spogliandosi dalle vesti e dai meriti di professore, del resto – come lui stesso afferma – “un docente non è altro che uno studente più vecchio”. Come è nata la sua passione? C’è stata un’illuminazione sulla via dell’Oriente che l’ha spinta ad approfondire una cultura così lontana dalla nostra? “Ho fatto il liceo classico negli anni ‘70, in piena disillusione post-sessantottista. C’era molta voglia di ‘scappare’, ma nello stesso tempo ‘cercare’, dando alla fuga una dimensione spirituale, realizzativa e totalizzante. Confondersi col mondo e annullarsi in esso per unirsi all’anima universale era un desiderio latente in molti adolescenti. In più, lo studio della classicità, che geograficamente s’interrompeva al limite delle conquiste di Alessandro e ai confini dell’India, mi appariva come un percorso di conoscenza lasciato a metà, spingendomi irresistibilmente a conoscere l’altra faccia del mondo, ossia le culture dell’India stessa e dell’Estremo Oriente”.
Cosa l’ha affascinata a suo tempo della Corea? E secondo lei cosa affascina i giovani d’oggi? Si può parlare di una nuova ‘Korean wave’? “Sulla Corea all’epoca si sapeva pochissimo. Tuttavia, percepivo già che questo paese doveva presentare una civiltà particolarissima, frutto di secoli di contaminazioni
culturali rielaborate in chiave indigena. Oggi, però, si assiste al triste fenomeno dei giovani interessati non tanto alla cultura tradizionale, ma a modelli puramente consumistici sponsorizzati ed esportati da governi interessati innanzitutto al ritorno economico. Ai governi sudcoreani sta bene, finché ‘drama’ e ‘K-POP’ portano soldi, ma questo ha finito per generare un interesse per qualcosa di assolutamente artificiale e con ogni probabilità anche di durata effimera”. Quanti in media scelgono quest’insegnamento? Il trend è in crescita negli ultimi anni? “Quando cominciai a insegnare, in classe c’erano due studenti, oggi ci sono circa 150 nuovi iscritti all’anno, con tendenza all’aumento. La cosa ovviamente mi fa piacere, ma di fronte alle motivazioni di molti
studenti non posso che provare perplessità; la stessa perplessità, del resto, che i colleghi yamatologi devono aver provato di fronte a un uditorio la cui scelta era stata soprattutto dettata dai ‘manga’. A me piacerebbe che queste conoscenze venissero inserite nell’ambito di un serio interesse per la cultura e la storia del paese che ha prodotto tali fenomeni. Purtroppo non sempre è così, e le classi di coreano di tutto il mondo presentano una certa percentuale
di ragazzini capaci solo di sospirare per i loro ‘idols’ senza impegnarsi eccessivamente nello studio, vissuto come passatempo snob”.
Un paese ricco ma “tutt’altro che felice”
E, invece, con quali occhi guarda alla Corea di oggi? “Senza voler parlare in questa sede della questione nordcoreana, la Corea del Sud è oggi un paese certamente ricco, ma tutt’altro che felice. I record mondiali di suicidi, consumo di alcol, interventi di chirurgia estetica, e ancora l’aumento esponenziale delle violenze e dei divorzi, il crollo delle nascite, mostrano un dolore di vivere e un disagio sociale ancora impensabile fino a pochi anni fa. Di fatto, oggi la Corea è un paese completamente diverso rispetto a quello che avevo conosciuto: al mio arrivo avevo trovato un paese ancora relativamente povero e sotto la dittatura militare, ma la gente sorrideva, si aiutava, scherzava. Adesso non è più così, e la cosa mi ferisce molto”. Qual è la storia pregressa di questa cattedra? “Correva l’anno 1969, e a tenere il primo corso di coreano fu il prof. Valerio Anselmo, poi dimessosi nei primi anni ‘80. L’insegnamento fu allora tenuto per supplenza dal prof. Paolo Santangelo, titolare di Storia della Cina, finché nel 1990 non fu rilevato da me. Oggi esistono in Italia solo quattro docenti di ruolo di coreano: due li abbiamo noi, uno è a Venezia e l’altro a Roma. Con l’occasione, ho il piacere di aggiungere che, visto il drammatico aumento degli studenti, il nostro Ateneo ha saggiamente deciso di rinforzare il corpo docente della disciplina, ingaggiando il prof.
Andrea De Benedittis, mio ex studente”. Quali sono le peculiarità, d’ordine grammaticale o strutturale, della lingua coreana? “Il coreano è una lingua agglutinante, come il giapponese, il turco, il mongolo. Come le lingue di questo tipo, possiede il fenomeno dell’armonia vocalica. Si tratta di una lingua
grammaticalmente piuttosto semplice, dove i verbi non si flettono, non ci sono gli articoli, né nomi e aggettivi hanno genere e numero. Fra le curiosità ci sono le numerose e varie forme onorifiche, frutto dell’evoluzione linguistica in una società fortemente stratificata, e la gran quantità di onomatopee che, pur capaci di esprimere sfumature di concetti, non sempre risultano semplici da rendere in traduzione”. In che modo si svolgono i suoi corsi? “A partire dalla III annualità do agli studenti un programma di letteratura personalizzato, in base ai loro interessi. Ci sono poi le lezioni a tema libero, dove si parte dalle loro domande per dare inizio a una serie di discorsi che finiscono per toccare argomenti solitamente fuori dai programmi ufficiali: i giochi, la divinazione, gli indovinelli, le etimologie e i collegamenti con altre culture. L’obiettivo è stimolare la curiosità dello studente in ogni branca della coreanistica. Trovo infatti disdicevole che un docente crei dei cloni di se stesso assegnando solo tesi inerenti al proprio ‘major’. Di fatto, io ho avuto finora studenti che l’hanno svolta in aspetti diversissimi: dalla linguistica alla storia, dalla letteratra all’arte, dal teatro all’antropologia. E se mi sfugge qualcosa me la vado a studiare: dopotutto, un docente non è altro che uno studente più vecchio”. Quali sono le difficoltà più ricorrenti cui far fronte nella traduzione dal coreano all’italiano?
“Potrei dire, un po’ polemicamente, che la difficoltà maggiore consiste nel conoscere bene l’italiano. Stiamo arrivando al paradosso di un’intera generazione di studenti che pretende di studiare lingue esotiche senza conoscere decentemente la propria. Quanto alla traduzione in sé, che è cosa ben diversa dall’interpretariato, essa è tanto più difficile quanto meno si conosce il contesto della lingua originale, e spesso non ci sono strumenti che tengano. Per giunta, il coreano di per sé è una lingua vaga e spesso ambigua, e a ciò si aggiunge la difficoltà di tradurre espressioni idiomatiche, dialettali o termini esclusivi della realtà coreana stessa. Questo fa sì che il traduttore debba tradurre molto liberamente oppure mettere delle note al testo, e qui spesso avviene lo scontro con l’editore, che in genere tende ad appesantire il testo il meno possibile, a discapito della precisione”. Di quali strumenti dovrebbe munirsi il traduttore moderno, soprattutto di testi letterari? “Nasco accademicamente come archeologo e storico dell’antichità e dunque sono stato abituato a vedere la traduzione come un mezzo e non come un fine. Lo studio e la ricerca storica sono infatti essenzialmente basati sulle fonti letterarie, che occorre tradurre, al pari delle epigrafi. Per tradurre bene occorrono: la conoscenza della lingua dipartenza e d’arrivo, la conoscenza del mondo e della cultura del paese, la sensibilità interiore capace di rendere coi mezzi della propria lingua le emozioni e i sentimenti captati nel testo originale. In altre parole, chi traduce un romanzo deve essere un po’ romanziere, chi traduce poesie deve essere un po’ poeta. Il resto è carisma e personalità, e questi non si acquisiscono col solo studio”. A Coreano c’è un nuovo lettore… “Da poco abbiamo una lettrice, la dr.ssa Song Miseon, e speriamo di poterla avere ancora per molto tempo, perché trovare del personale qualificato non è facile, soprattutto tenendo conto che in Campania c’è una presenza di coreani molto limitata. Nel periodo in cui eravamo senza lettore si cercava di supplire con le disponibilità presenti on-line. Molti studenti poi hanno amici coreani, con i quali possono comunicare verbalmente via skype o col Kakao talk, equivalente del whatsapp”. “Le lingue non si studiano, ma si imparano” Quali strategie raccomanda ai suoi studenti nello studio e pratica della lingua? “Le lingue non si ‘studiano’, ma si ‘imparano’, essendo l’apprendimento
linguistico soprattutto un fatto mnemonico alimentato dalla continua ripetizione. I bambini dell’asilo non sanno nulla di grammatica, eppure parlano senza troppi patemi, e io stesso, quando andai la prima volta in Corea, non sapevo dire né ‘sì’ né ‘no’. La pratica sul posto rimane sempre il mezzo migliore per l’apprendimento, e per questo suggerisco agli studenti di fare quanto prima un’esperienza diretta in Corea, magari usufruendo dei corsi estivi a ottimo prezzo praticati da qualche Università gemellata con noi”. Borse di studio e convenzioni con Università straniere. Quali possibilità ci sono? “Abbiamo convenzioni con cinque Atenei coreani di altissimo livello: la Sogang University, la SungKyunKwan University, la Korea University, la Ewha University e la
Inha University. In questo momento, sono in trattativa anche con la Seoul National University e la Academy of Korean Studies”. Cosa suggerirebbe agli studenti più motivati che vogliono proseguire gli studi nel settore? E quali sbocchi occupazionali si prospettano per loro? “Dico agli studenti di andare dove li porta il cuore, prima ancora di agire in funzione di qualcosa che non amano ma che in teoria potrebbe essere più remunerativo. Può andare bene o male, ma almeno ci avranno provato e niente è più bello di invecchiare senza rimpianti. Gli sbocchi naturali sono, oltre a quelli nel campo dell’insegnamento e della ricerca, nell’interpretariato, negli uffici di aziende coreane in Italia o all’estero, nell’amministrazione in generale, nel turismo. È ovvio, comunque, che si parte dal presupposto che un giovane che fa questo tipo di studi deve essere anche disposto ad andare all’estero”. Gli studenti approfondiscono autonomamente la letteratura e la storia attraverso i suoi libri. Come commenta i suoi lavori? E cosa li ha ispirati? “Ad ispirarli ci ha pensato prima di tutto la necessità didattica. Quando, nell’ormai lontano novembre del 1990, feci la prima lezione, ebbi subito l’impressione di dover scalare l’Everest in canottiera e scarpe da tennis. Non esisteva nulla di nulla come materiale didattico: bisognava inventare tutto, cominciando da zero. Occorrevano subito almeno un testo serio di grammatica e uno di letteratura. In cinque anni riuscii a scriverli e pubblicarli entrambi, oltre agli articoli scientifici e alle traduzioni. Risolta l’emergenza, ho potuto programmare con più calma la mia attività scientifica concentrandomi sulla storia, sulla letteratura classica e sugli studi comparati tra Oriente e Occidente. Oggi due generazioni di studenti hanno studiato sui miei libri; i miei testi si usano da Taiwan agli Stati Uniti”. Come consiglierebbe alle nuove leve di accoppiare il coreano? “Se lo studente è interessato alla Corea classica consiglio senz’altro di abbinare il cinese, anche
perché il cinese rimase la lingua ufficiale della corte coreana fino alla fine della monarchia, nel 1910. Allo studente interessato alla Corea contemporanea, invece, consiglio di abbinare il giapponese, perché molti dei modelli letterari e culturali del XX secolo sono arrivati in Corea attraverso il Giappone, per non dire dei 35 anni (1910-1945) di colonizzazione giapponese della Corea. Sconsiglio fortemente l’accoppiamento con lingue occidentali, perché per comandare degnamente gli studi comparati occorre un polso scientifico e intellettuale che raramente può essere posseduto da un giovane di 18-20 anni”.
Sabrina Sabatino
Andrea De Benedittis, mio ex studente”. Quali sono le peculiarità, d’ordine grammaticale o strutturale, della lingua coreana? “Il coreano è una lingua agglutinante, come il giapponese, il turco, il mongolo. Come le lingue di questo tipo, possiede il fenomeno dell’armonia vocalica. Si tratta di una lingua
grammaticalmente piuttosto semplice, dove i verbi non si flettono, non ci sono gli articoli, né nomi e aggettivi hanno genere e numero. Fra le curiosità ci sono le numerose e varie forme onorifiche, frutto dell’evoluzione linguistica in una società fortemente stratificata, e la gran quantità di onomatopee che, pur capaci di esprimere sfumature di concetti, non sempre risultano semplici da rendere in traduzione”. In che modo si svolgono i suoi corsi? “A partire dalla III annualità do agli studenti un programma di letteratura personalizzato, in base ai loro interessi. Ci sono poi le lezioni a tema libero, dove si parte dalle loro domande per dare inizio a una serie di discorsi che finiscono per toccare argomenti solitamente fuori dai programmi ufficiali: i giochi, la divinazione, gli indovinelli, le etimologie e i collegamenti con altre culture. L’obiettivo è stimolare la curiosità dello studente in ogni branca della coreanistica. Trovo infatti disdicevole che un docente crei dei cloni di se stesso assegnando solo tesi inerenti al proprio ‘major’. Di fatto, io ho avuto finora studenti che l’hanno svolta in aspetti diversissimi: dalla linguistica alla storia, dalla letteratra all’arte, dal teatro all’antropologia. E se mi sfugge qualcosa me la vado a studiare: dopotutto, un docente non è altro che uno studente più vecchio”. Quali sono le difficoltà più ricorrenti cui far fronte nella traduzione dal coreano all’italiano?
“Potrei dire, un po’ polemicamente, che la difficoltà maggiore consiste nel conoscere bene l’italiano. Stiamo arrivando al paradosso di un’intera generazione di studenti che pretende di studiare lingue esotiche senza conoscere decentemente la propria. Quanto alla traduzione in sé, che è cosa ben diversa dall’interpretariato, essa è tanto più difficile quanto meno si conosce il contesto della lingua originale, e spesso non ci sono strumenti che tengano. Per giunta, il coreano di per sé è una lingua vaga e spesso ambigua, e a ciò si aggiunge la difficoltà di tradurre espressioni idiomatiche, dialettali o termini esclusivi della realtà coreana stessa. Questo fa sì che il traduttore debba tradurre molto liberamente oppure mettere delle note al testo, e qui spesso avviene lo scontro con l’editore, che in genere tende ad appesantire il testo il meno possibile, a discapito della precisione”. Di quali strumenti dovrebbe munirsi il traduttore moderno, soprattutto di testi letterari? “Nasco accademicamente come archeologo e storico dell’antichità e dunque sono stato abituato a vedere la traduzione come un mezzo e non come un fine. Lo studio e la ricerca storica sono infatti essenzialmente basati sulle fonti letterarie, che occorre tradurre, al pari delle epigrafi. Per tradurre bene occorrono: la conoscenza della lingua dipartenza e d’arrivo, la conoscenza del mondo e della cultura del paese, la sensibilità interiore capace di rendere coi mezzi della propria lingua le emozioni e i sentimenti captati nel testo originale. In altre parole, chi traduce un romanzo deve essere un po’ romanziere, chi traduce poesie deve essere un po’ poeta. Il resto è carisma e personalità, e questi non si acquisiscono col solo studio”. A Coreano c’è un nuovo lettore… “Da poco abbiamo una lettrice, la dr.ssa Song Miseon, e speriamo di poterla avere ancora per molto tempo, perché trovare del personale qualificato non è facile, soprattutto tenendo conto che in Campania c’è una presenza di coreani molto limitata. Nel periodo in cui eravamo senza lettore si cercava di supplire con le disponibilità presenti on-line. Molti studenti poi hanno amici coreani, con i quali possono comunicare verbalmente via skype o col Kakao talk, equivalente del whatsapp”. “Le lingue non si studiano, ma si imparano” Quali strategie raccomanda ai suoi studenti nello studio e pratica della lingua? “Le lingue non si ‘studiano’, ma si ‘imparano’, essendo l’apprendimento
linguistico soprattutto un fatto mnemonico alimentato dalla continua ripetizione. I bambini dell’asilo non sanno nulla di grammatica, eppure parlano senza troppi patemi, e io stesso, quando andai la prima volta in Corea, non sapevo dire né ‘sì’ né ‘no’. La pratica sul posto rimane sempre il mezzo migliore per l’apprendimento, e per questo suggerisco agli studenti di fare quanto prima un’esperienza diretta in Corea, magari usufruendo dei corsi estivi a ottimo prezzo praticati da qualche Università gemellata con noi”. Borse di studio e convenzioni con Università straniere. Quali possibilità ci sono? “Abbiamo convenzioni con cinque Atenei coreani di altissimo livello: la Sogang University, la SungKyunKwan University, la Korea University, la Ewha University e la
Inha University. In questo momento, sono in trattativa anche con la Seoul National University e la Academy of Korean Studies”. Cosa suggerirebbe agli studenti più motivati che vogliono proseguire gli studi nel settore? E quali sbocchi occupazionali si prospettano per loro? “Dico agli studenti di andare dove li porta il cuore, prima ancora di agire in funzione di qualcosa che non amano ma che in teoria potrebbe essere più remunerativo. Può andare bene o male, ma almeno ci avranno provato e niente è più bello di invecchiare senza rimpianti. Gli sbocchi naturali sono, oltre a quelli nel campo dell’insegnamento e della ricerca, nell’interpretariato, negli uffici di aziende coreane in Italia o all’estero, nell’amministrazione in generale, nel turismo. È ovvio, comunque, che si parte dal presupposto che un giovane che fa questo tipo di studi deve essere anche disposto ad andare all’estero”. Gli studenti approfondiscono autonomamente la letteratura e la storia attraverso i suoi libri. Come commenta i suoi lavori? E cosa li ha ispirati? “Ad ispirarli ci ha pensato prima di tutto la necessità didattica. Quando, nell’ormai lontano novembre del 1990, feci la prima lezione, ebbi subito l’impressione di dover scalare l’Everest in canottiera e scarpe da tennis. Non esisteva nulla di nulla come materiale didattico: bisognava inventare tutto, cominciando da zero. Occorrevano subito almeno un testo serio di grammatica e uno di letteratura. In cinque anni riuscii a scriverli e pubblicarli entrambi, oltre agli articoli scientifici e alle traduzioni. Risolta l’emergenza, ho potuto programmare con più calma la mia attività scientifica concentrandomi sulla storia, sulla letteratura classica e sugli studi comparati tra Oriente e Occidente. Oggi due generazioni di studenti hanno studiato sui miei libri; i miei testi si usano da Taiwan agli Stati Uniti”. Come consiglierebbe alle nuove leve di accoppiare il coreano? “Se lo studente è interessato alla Corea classica consiglio senz’altro di abbinare il cinese, anche
perché il cinese rimase la lingua ufficiale della corte coreana fino alla fine della monarchia, nel 1910. Allo studente interessato alla Corea contemporanea, invece, consiglio di abbinare il giapponese, perché molti dei modelli letterari e culturali del XX secolo sono arrivati in Corea attraverso il Giappone, per non dire dei 35 anni (1910-1945) di colonizzazione giapponese della Corea. Sconsiglio fortemente l’accoppiamento con lingue occidentali, perché per comandare degnamente gli studi comparati occorre un polso scientifico e intellettuale che raramente può essere posseduto da un giovane di 18-20 anni”.
Sabrina Sabatino