La storia di una studentessa che ha tanto da dire in video da Roma, dove sta effettuando un ciclo di chemioterapia
Durante la mattinata a rivolgersi a tu per tu alle matricole ci pensano due dei loro colleghi ‘più grandi’. Parla di senso di responsabilità Antonino Esposito, presidente dell’associazione studentesca Asmed Unina: “La responsabilità ci guida verso l’obiettivo di diventare grandi medici e rivoluzionare la sanità, obiettivo dal quale a volte ci distraiamo. Altre volte, invece, capita di sentirci in difficoltà. È umano. Non è vero che gli studenti di oggi sono svogliati. Abbiamo tanta voglia di fare e di imparare”. La parola passa poi a Francesca Antonioli, collegata in video da Roma, dove sta effettuando un ciclo di chemioterapia: “Quando Antonino mi ha proposto di tenere questo discorso ha motivato la richiesta con il fatto che, a suo parere, sono una persona che ha tanto da dire”. Se lo chiede, cosa abbia da dire, dallo scorso settembre, “da quando ho avuto la diagnosi di leucemia recidiva, per la terza volta”.
“Francina sono io”
La prima volta, racconta, “avevo quattordici anni e non disponevo dei mezzi per capire cosa mi stesse succedendo. La seconda, invece, ero al terzo anno di Medicina e a quel punto ero in grado di comprendere meglio. La leucemia era tornata più aggressiva, ho avuto il trapianto di midollo, ma non è stato risolutivo. Il cancro si nascondeva ancora dentro di me ed è riesploso poco prima che partissi in Erasmus”.
Un anno e mezzo fa, gli studenti di Medicina lo ricorderanno, i suoi amici avevano lanciato ‘Un midollo per Francina’, campagna di sensibilizzazione e informazione sulla donazione di midollo osseo. “Francina sono io. I miei amici avevano deciso che non sarei morta. In quel momento ho sentito tutto il loro affetto e la solidarietà di quelle persone che, informandosi sulla donazione di midollo, diffondevano la cultura del dono e compivano un gesto di civiltà”. Prosegue: “Faccio i conti con la possibilità di poter morire. A quattordici anni riuscivo a tenerla lontana, ma ora è più reale. Ho pensato tanto a cosa significherebbe spegnersi. Ho pensato alla bambina che sono stata, a come, giocando con le barbie, immaginavo la mia vita futura. Il cancro non era contemplato. All’inizio ho scacciato via l’idea di non poter concretizzare tutte le cose che realizzavano le mie barbie, ma poi è arrivata una sorta di calma, di rassegnazione. La mia professoressa di Lettere del liceo mi aveva invitata ad esplorare il mio dolore e così ho fatto”. Ed è ritornata la domanda: “Che cosa ho da dire? Che cosa ho detto al mondo con la mia vita? Sin da piccola ho ritenuto la scuola e la formazione fondamentali. Ho sempre preteso tanto. Sono arrivata all’università carica di voglia di sfondare e di indossare il camice. Poi si sono susseguite la pandemia, la malattia, il trapianto e tutti gli effetti postumi. Ora eccomi qui, di nuovo a curarmi, con i libri di Medicina sul comodino”.
L’esame di Anatomia Patologica a 7 giorni dal trapianto
Va avanti: “In questa mia breve vita, in cui ho rincorso un sogno, sono cambiata ed ora sono diversa dalla ragazzina che doveva tradurre la versione alla perfezione. L’università non è tutto. Ho sempre continuato a studiare come potevo. Sette giorni dopo il trapianto, dalla camera sterile, con la morfina nelle vene e un’infiammazione alla bocca, ho dato l’esame di Anatomia Patologica”. Lo studio ha scandito il suo tempo, “mi ha dato degli obiettivi a breve termine, mi teneva impegnata. In quel momento non stavo rincorrendo la laurea. Non ero in quel circuito tossico nel quale meritavo l’applauso perché ce la stavo facendo”.
L’università non è il centro delle nostre vite, afferma, “e con questo non sto dicendo che non sia importante. Ma dobbiamo ricordarci che non siamo solo questo, la nostra vita è altrove. Ci sentiamo falliti se non riusciamo a raggiungere gli stessi risultati degli altri, se non riusciamo a primeggiare. Sembriamo quei bassotti buffi e goffi che alle corse dei cani vengono messi in corsia per sfidarsi e non si rendono conto di altro”. Quindi, “mi chiedo, cosa rimarrà di me se dovessi morire? La mia media, i complimenti di un professore o le cattiverie di un altro? Ricorderemo con più romanticismo il tramonto o il confronto con un collega?”. Non siamo un voto, dice, “ce lo ripetiamo spesso, ma non ci crediamo sempre fino in fondo. Non mi importa di morire senza indossare la corona di alloro. Mi importa di lasciare qualcosa di me a chi amo. Dobbiamo rimuovere il pensiero della corsa capitalistica al successo perché sono troppi i ragazzi che soffrono per questo”. L’Università va vista come una risorsa: “Come una freccia nel proprio arco. Guardiamoci attorno, viviamo il presente, prendiamoci cura di noi, scopriamo quello che accade, informiamoci. Viviamo in una realtà terribile di conflitti e cambiamento climatico e dobbiamo prendere una posizione. L’istruzione è un’arma per capire”. Si rivolge agli studenti: “Per quanto sia duro il percorso, esiste sempre un modo per superare la scalata anche quando vi faranno credere che non è così. Io continuerò a curarmi finché non sarò libera. E continuerò ad andare avanti nel mio percorso da studente”.