Il campo Rom di Giugliano “un’istituzione totale”

“Un residente del campo ROM di Giugliano mi ha raccontato che viveva lì dagli anni ’80 e che, da allora, non è cambiato nulla. Che lui era sporco perché il campo era sporco. Che lui è il campo. Gli abbiamo chiesto se potesse scegliere dove vivrebbe, ma lui ha risposto che avrebbe voluto comunque il campo, però pulito. Mi poneva domande, come a cercare conferma che si potesse fare davvero qualcosa per migliorare l’insediamento. L’ho interpretata come una paura di uscire fuori di lì, dopo quarant’anni.

Ormai si identifica con questo posto”. A parlare è Cristina Brando, studentessa al terzo anno di Giurisprudenza tra le nuove borsiste del progetto di Clinica Legale in materia di apolidia, che, lunedì 12 maggio, assieme ai suoi colleghi, è entrata per la prima volta nell’insediamento Rom di Via Carrafiello, a Giugliano.

Un luogo “inumano”

Un luogo che definisce “inumano”, dalla posizione – “a quasi cinque ore di cammino dal centro di Giugliano, a margine di una strada” – fino alle condizioni dei servizi essenziali: “Non c’è elettricità perché, qualche mese fa, una bambina è morta fulminata e il Comune ha ben pensato direttamente di staccare la corrente, invece di sistemarla. I bagni chimici sono stati rimossi e c’è una sola fontanella per tutti”.

Attualmente vi risiedono 450 persone, di cui la metà sono bambini, ma sarà così ancora per poco: nella stessa mattinata, il Comune ha iniziato lo sgombero dell’insediamento e i colloqui dei ragazzi della Clinica con la popolazione del campo si sono svolti su un sottofondo di ruspe che rimuovevano le baracche e sollevavano cumuli di terreno e spazzatura. Assieme ai borsisti, sul campo c’era l’Associazione 21 luglio, che supporta gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione.

Insieme, hanno dato il via alla prima fase del progetto “MA.Rea (acronimo per “mappare e realizzare”): sopralluoghi per fare il punto sulle condizioni dell’insediamento e sui bisogni della comunità con il fine di arrivare non alla “chiusura” del campo, che sarebbe un’azione fine a se stessa, ma al suo “superamento”, che passa per la ricerca di soluzioni alternative. “I membri dell’associazione hanno spesso sottolineato che il campo Rom è un’istituzione totale: lo interiorizzi, pensi di meritare quella condizione, di vivere vicino ai rifiuti, e questo influisce sul rifiuto dei residenti ad abbandonarlo”, racconta Kim Bertorello, anche lei neo-borsista della Clinica.

Nonostante ciò, dato che lo sgombero è in corso, “gli abitanti del campo erano spaventati: temevano di essere sfollati di lì a pochi giorni e questo ha inciso sulla loro volontà di capire perché eravamo lì e di lasciarci i documenti, sperando potessimo aiutarli a trovare una soluzione – spiega Kim – Il problema è che, oltre a raccogliere informazioni, non possiamo fare granché rispetto all’aiutarli a trovare una sistemazione, perché le case che il Comune ha non sono state destinate a loro”. Grazie ai dati raccolti attraverso la mappatura, però, “possiamo riportare questi casi alle istituzioni e, in una seconda fase, interloquire attraverso tavoli che coinvolgano anche i rappresentanti della comunità Rom, per trovare sistemi alternativi”, continua.

La docente “È la prima volta che ci troviamo a lavorare in condizioni così estreme”

In tutta questa operazione, per quanto possa rendersi difficile, fondamentale è riuscire a mantenere un approccio empatico con la popolazione dell’insediamento. “C’erano bambini che giravano con i piedini scalzi in mezzo a vetri e terreno e, intanto, le ruspe alzavano di tutto. Era pieno di topi, ovunque, e cercavamo di non reagire perché ci sentivamo in colpa, perché loro invece rimanevano impassibili. Ci dicevano, quasi rassegnati, che se li trovavano anche sulle coperte”, riporta Cristina. Insomma, un’esperienza dall’impatto emotivo molto forte, al punto tale che, confessa, “non vorrei mai più tornare al campo.

Però ci sono persone che lì ci vivono e mi dico: come faccio a non andarci più? Su questo noi della Clinica siamo tutti d’accordo: dopo averlo visto, non puoi ignorarlo”. Soprattutto a fronte dell’assenza delle istituzioni: “il disinteresse dell’amministrazione mi spinge moralmente ad andare al campo e il pensiero che se non ci andiamo noi non andrà nessun altro. Sarebbe tutto molto più semplice se si lavorasse tutti assieme”, conclude Cristina.

“Come Clinica Legale siamo già entrati in altri insediamenti, ma è la prima volta che ci troviamo a lavorare in condizioni così estreme e mi sono anche chiesta se fosse il caso di continuare, perché tutto questo va al di là delle nostre aspettative – confessa la prof.ssa Flora Di Donato, responsabile del progetto – Quello che è troppo non è quello che siamo chiamati a fare, ma a tollerare”. Quindi lancia un appello: “La Clinica ha bisogno di ulteriori supporti: oggi si regge su finanziamenti esterni, soprattutto dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Chiediamo che le istituzioni, il Dipartimento e l’Ateneo prendano seriamente in considerazione le nostre attività”.

L’ambizione è quella di avere, in Dipartimento, spazi ad uso esclusivo ed essere riconosciuti a pieno titolo dall’Ateneo al livello di Terza missione: “siamo stati segnalati dal Dipartimento tra i casi meritevoli, ma per ora non abbiamo avuto nessun riscontro”, sottolinea la prof.ssa Di Donato. In ultimo, la necessità di un confronto con gli enti locali, dalla Regione al Comune: “Da due anni chiediamo un confronto con il Prefetto per la Terra dei fuochi, affinché i Rom siano ascoltati sulla questione dei rifiuti, ma ancora niente”, conclude.
Giulia Cioffi
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Ateneapoli – n. 9 – 2025 – Pagina 19

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