“Una storia è molto più potente di qualsiasi tavola rotonda, dibattito, saggio, conferenza, incontro, riunione o comizio voi possiate mai avere”. Non vuole ergersi a professore, si imbarazza quando lo chiamano “artista” ma, tutto sommato, di ‘storie’ Maurizio de Giovanni qualcosa ne sa. Poliedrico ed eclettico, non c’è canale comunicativo che non abbia conosciuto la sua penna: romanzi, cinema, piccolo schermo, teatro e perfino il fumetto. Una continua operazione di intreccio tra parole, immagini e narrativa, che lo ha reso l’ospite perfetto per dialogare di ‘linguaggi cross-mediali’ con gli studenti del Dipartimento di Scienze Sociali, in una Masterclass su ‘Cinema e linguaggi audiovisivi’ introdotta dal prof. Raffaele Savonardo, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi.
È lunedì 10 marzo e l’Aula Magna di Vico Monte della Pietà è in gran trepidazione tra chi è desideroso di seguirne le orme e spera di strappargli qualche prezioso consiglio, nella speranza, un giorno, di avere altrettanto successo e chi, da appassionato telespettatore de ‘I bastardi di Pizzofalcone’, de ‘Il Commissario Ricciardi’ o di ‘Mina Settembre’, è curioso di conoscere qualche retroscena sui propri sceneggiati del cuore. Impiega un attimo de Giovanni a catturare la platea: da buon narratore, catapulta immediatamente il suo pubblico in una serie di racconti.
C’era una volta un bambino annegato in mare, emigrato dal proprio paese, con la pagella piena di nove e dieci, cucita nella giacca. Una storia vera, che a suo tempo fece il giro del mondo, emergendo tra una moltitudine di tragedie con lo stesso amaro finale. “Perché questo bambino, e non gli altri milioni di morti?”, domanda alla platea. “Perché lui è una storia! Ha una pagella, ha un nome e ha una speranza di cui era portatore e che non è arrivata a destinazione”.
Ancora, un nonno con il proprio nipotino in braccio: anche lui immigrato. L’immagine di lui caduto a terra, dopo essere stato di proposito sgambettato da una giornalista tedesca che cercava di aizzargli contro i propri telespettatori, smosse così tanto l’opinione pubblica tedesca che costrinse la Germania a ripensare alle proprie politiche migratorie.
L’immaginazione, “un muscolo che va allenato”
Ecco, di nuovo, la potenza della narrazione: “Se raccontate la storia, voi arrivate dove gli altri non arrivano. Toccate un livello di profondità e scavate cicatrici che nessun’altra forma di parola può raggiungere”. Ma come si arriva ad essere davvero narratori? “Nessuno pensa: adesso faccio lo scrittore, mi cerco una storia. È il contrario: io adesso ho una storia nella testa e in qualche modo la devo mettere giù”. Tutto nasce dall’immaginazione, “un muscolo che va allenato”, attraverso la lettura.
Pensare di poter scrivere senza prima aver letto, a suo dire, è come voler giocare a calcio in Serie A senza aver mai visto o giocato una partita. “Leggere è un’attività, stare davanti allo schermo è una passività: non potete immaginare quello che vedete diverso da com’è”. Chi scrive una storia ha visto un’immagine.
Chi l’ha letta, ha visto quell’immagine e ci ha visto anche dell’altro, e questo flusso generatore va avanti di lettore in lettore fino a concludere che “non è creativa la scrittura, ma la lettura”. E guai al ritenersi più importanti della storia stessa: “Troverete nel vostro lavoro una pleiade di autori che hanno un solo intento: raccontare se stessi. Dire al mondo quanto sono profondi, belli, grandi, intelligenti e perché quello che è successo a loro è rilevante”. Invece, bisogna aprirsi al mondo e agli altri. “La storia è il perché succedono le cose”, il domandarsi: “Che altro c’è che io non vedo?”.
E allora “raccontate le storie degli altri”: infinite, meravigliose e terribili, tutte da scoprire, dove si annidano sentimenti e passioni e dove si può scoprire come anche il più terribile gesto umano, “per quanto possa essere atroce, è comunque comprensibile”. Alla fine, tutta l’esperienza emotiva umana è già stata raccontata in millenni di poesia e letteratura. L’unica cosa che possiamo fare, secondo de Giovanni, è “cambiare la voce”. Qui entra in gioco la narrazione, dove “l’unico elemento che fa la differenza è il coinvolgimento”.
Non serve “né profondità di vocabolario, né un’ampiezza di linguaggio, né una particolare tecnica di scrittura”: basta solo avere un buon grado di coinvolgimento. E non è nemmeno necessario che sia sempre al massimo: “Certe storie vanno anche raccontate con freddezza, lasciando al lettore un maggiore spazio interpretativo”.
Questo è tutto quello che fa la differenza tra un libro di cui ci ricordiamo la trama e uno di cui, per quanto ci possano essere piaciute le metafore, proprio non ci rievoca alcunché. “Una storia è fatta di trama, personaggi e ambientazione. Una storia perfettamente equilibrata dovrebbe avere il 33% di ciascuna, più l’1% di scrittura. Non di più”.
Nelle opere di Maurizio de Giovanni, Napoli ha un ruolo speciale, ma non si tratta di semplice amore per la propria terra. Una città che vive intrappolata in un eterno paradosso: quella di non avere “né una casa editrice a distribuzione nazionale, né una casa discografica, né una casa di distribuzione cinematografica” e, tuttavia, aver generato musica, sceneggiati e opere tradotte in tutto il mondo come poche altre. È tutta un gioco di contrasti, dove luce e ombra si mescolano: “Napoli è una città stretta, sovrapposta, dove tra classi sociali non c’è separazione fisica. Nello stesso palazzo, se dagli ultimi piani si vede il mare, voi avrete quattro classi sociali nella stessa riunione di condominio”.
Un luogo dove vivere l’esperienza unica di girarsi di novanta gradi e avere la sensazione di essere in due mondi totalmente opposti, dove “non c’è un quartiere che non abbia il suo doppio” e dove, proprio per questo, “la possibilità di questo territorio di raccontare storie è immensa” perché, alla fine, “la storia è differenza di potenziale”, come la corrente elettrica.
Giulia Cioffi
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Ateneapoli – n. 5 – 2025 – Pagina 24