Ricerca del gruppo di Fisiologia veterinaria
Le giornate trascorse in casa, con la possibilità di uscire solo per acquistare generi alimentari ed il rischio di dover mostrare i documenti al primo poliziotto. Le polemiche sull’effettivo significato dell’attività motoria. Le proteste – talvolta molto accese e perfino violente – contro chi praticava la corsa all’aperto. Le urla dai balconi e dalle finestre all’indirizzo di chi stava in strada, eletto a novello untore da parte di una comunità incattivita e spaventata. Gli inseguimenti della polizia nei confronti di chi passeggiava in spiaggia. Il disagio dei bambini improvvisamente privati di ogni contatto con i coetanei. È accaduto nella primavera 2020, quella dei primi provvedimenti di chiusura ed interruzione di ogni attività. Il coronavirus era ancora una novità, contagi e decessi crescevano in maniera esponenziale e i medici non sapevano quale fosse il miglior modo di affrontare la malattia. Una esperienza che ha lasciato strascichi notevoli, anche di natura psicologica, in tutti ed in special modo nei bambini e negli adolescenti. Uno studio della Federico II in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma prova ora a verificare se quella chiusura, quella privazione di rapporti e relazioni con i propri simili, abbia in qualche modo influito anche sui nostri amici a quattro zampe, i cani. In particolare sui cuccioli, sugli animali che all’epoca avevano ancora poche settimane o pochi mesi di vita. “In una prima fase – dice Danila D’Angelo, ricercatrice di Fisiologia veterinaria – abbiamo somministrato un questionario on-line, a ridosso della fine del lockdown, per renderci conto di come i proprietari abbiano percepito il disagio dei cani. L’idea è partita dal gruppo di Fisiologia ed Etologia veterinaria della Federico II, coordinato dal prof. Luigi Avallone, che è ordinario di Fisiologia. Abbiamo coinvolto Andrea Chirico, che lavora a La Sapienza e si occupa di psicometria”. Quattromila persone sono entrate nella piattaforma per rispondere alle domande che sono state proposte dai ricercatori. “Ne abbiamo ricavato – prosegue D’Angelo – circa 2500 risultati utili. I quesiti erano ottanta, più o meno. Dall’elaborazione dei risultati è emerso che da parte dei padroni c’era una scarsa consapevolezza dello stress che anche i loro compagni di casa a quattro zampe avevano patito in quel periodo. Tutti o quasi, nel dare un punteggio alla qualità di vita del cane in quelle settimane, hanno assegnato sette oppure otto. Più che discreta, insomma. Eppure dalla risposta ad altri quesiti del questionario abbiamo rilevato la presenza di diffusi sintomi di ansia. I cani ansimavano spesso, erano irrequieti, adottavano comportamenti distruttivi”. Anche per i nostri quadrupedi, insomma, il lockdown è stato tutt’altro che facile da gestire. “È vero – spiega la ricercatrice di Veterinaria – che erano garantite le uscite quotidiane per i bisogni fisiologici, ma erano contingentate e limitate nella percorrenza. I parchi, poi, erano chiusi. Le opportunità di contatto con gli altri cani molto scarse”. A partire da quel primo studio il gruppo di Veterinaria ha sviluppato un secondo progetto, calibrato stavolta sui cani che all’epoca della chiusura della primavera del 2020 erano cuccioli. “Sempre attraverso la modalità del questionario – va avanti D’Angelo – intendiamo valutare l’impatto del lockdown nel marzo-maggio 2020 sulla crescita e sullo sviluppo comportamentale dei cani di coloro i quali risponderanno alle domande. In sostanza, vorremmo capire quanto l’isolamento abbia influito nell’ambito relazionale dell’animale in formazione”. I ricercatori chiedono la collaborazione dei proprietari di cani i quali avevano tra uno e cinque mesi durante il periodo marzo-maggio 2020. Un’età, in sostanza, che corrisponde all’infanzia dei bambini. “A sette mesi i cani diventano fertili. Escono dall’infanzia, per usare, sia pure in maniera impropria, un paragone con l’età dell’uomo. È cruciale la fase dell’apprendimento nei primi mesi, della socializzazione, dell’esplorazione del mondo, dei rapporti con gli altri cani”. Un animale che abbia saltato questa fase dell’apprendimento o che l’abbia svolta in maniera limitata può essere più difficile da gestire rispetto ad un cane che, invece, abbia seguito regolarmente le tappe. “Può avere – spiega D’Angelo – una percezione errata di sé, può riferirsi ai suoi simili in maniera disfunzionale. In tali situazioni è utile affidarsi a riabilitatori ed istruttori qualificati ed intervenire il prima possibile. Spesso il fai da te non porta a nulla di buono e si perde tempo utile”. Aggiunge: “La socialità è fondamentale per un cane e non di rado quelli di allevamento ne sono privati fin da cuccioli. Spesso le mamme stanno nei box ed il contatto con lei, che è strumento fondamentale per un’esplorazione attiva dell’ambiente da parte dei cuccioli, è carente”.
Un altro studio interessante avviato dal gruppo di Fisiologia di Veterinaria della Federico II, in collaborazione con Andrea Chirico e con Lorenza Silvestri ed Annamaria Barbaro (sono le promotrici della start up Empethy) punta a formulare un algoritmo che confronti i dati della personalità del cane e di chi si appresta ad adottarlo per capire se può nascere empatia e intesa. “Abbiamo ipotizzato – dice D’Angelo – che possa essere uno strumento utile per i volontari”. Cum grano salis, naturalmente, perché chi vive con un cane sa bene che non c’è formula matematica o algoritmo che possa sostituire il primo sguardo d’intesa in canile, quel momento in cui scatta la scintilla e si decide di portare a casa quel determinato animale.
Fabrizio Geremicca
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