Il fardello del giornalista di guerra: “le storie che racconterai diventeranno parte di te”

Intervista a Sabato Angieri, cronista dalle aree di crisi che conduce un Laboratorio a L’Orientale

“La sfida principale per un cronista è proporre un racconto dei fatti il più possibile aderente alla realtà, e al tempo stesso diverso dall’informazione veicolata dai social. Per competere, il giornalismo si è adeguato a una narrazione che non gli appartiene: immediata e troppo superficiale. Una foto o un video, senza verifiche e contestualizzazioni, non sono una notizia”. E se a questa trappola della disinformazione, tutta dei giorni nostri, si aggiungono la guerra e le relative propagande, si capisce come il mestiere di raccontare il fronte sia radicalmente mutato rispetto al passato. L’analisi di questi meccanismi è l’obiettivo di ‘Raccontare la guerra: il giornalismo dalle aree di crisi tra propaganda e social media’, laboratorio iniziato lo scorso 27 marzo al Dipartimento di Scienze umane e sociali de L’Orientale condotto da Sabato Angieri, giornalista di guerra chiamato dalla prof.ssa Ruth Maria Hanau Santini per l’occasione.
Romano, classe 1988, laureato in Lettere a La Sapienza, Angieri ha coperto il conflitto russo-ucraino stando al fronte per circa 15 mesi su 26 (è tornato solo poche settimane fa dall’ultimo viaggio, prima a sud, poi a est nel Donbass) raccontandolo sulle pagine de Il Manifesto e de L’Espresso per la carta stampata, su La7 e Radio popolare – “durante il primo collegamento con loro, alle 11 del mattino del 24 febbraio di due anni fa, trasmettevo la prima sirena”. Non solo Ucraina nella sua carriera: pure Caucaso (in particolare Armenia), Israele.

“Una visione ragionata della realtà”

È pure fondatore e direttore di L’Atlante editoriale, rivista di approfondimento per chi vuole “leggere il presente con i giusti tempi”. Sicuramente non i tempi di uno scoop, che ormai come concetto appartiene a un’altra epoca del giornalismo, non certamente quella degli smartphone. E allora un giornalista può “proporre una visione ragionata della realtà, che prenda forma pure dalle conoscenze che ha del contesto, dallo studio critico di tutto il pregresso che ha condotto ai fatti che racconta”. Approccio che non sembra tipico del giornalismo italiano, molto concentrato sugli affari interni e meno su quelli esteri: “ci si stupisce di tutto ciò che accade nel mondo, in realtà è mancanza di conoscenza dei contesti ed è un problema serissimo, perché produce disinformazione”.
Che in alcuni casi, come quelli che proprio Angieri tratta nel laboratorio, sono stati eclatanti. “Nella lezione introduttiva ho fatto un esempio che riguarda la guerra in Ucraina. Ho citato un report di Amnesty dell’autunno 2022, nel quale l’organizzazione affermava che i soldati ucraini avevano messo a repentaglio la vita dei propri civili utilizzando ospedali, scuole e teatri come acquartieramenti delle truppe. Nonostante fosse verissimo, e l’ho visto con i miei occhi, ci fu una levata di scudi da parte dell’Ucraina e dei suoi alleati, che accusarono l’organizzazione di essere filorussa. In realtà quel report spezzò la narrazione della guerra giusta contro l’aggressore.
Venendo al punto, ho raccontato questo aneddoto per spiegare che quando si opera in un contesto di crisi non bisogna anteporre il concetto di giusto o sbagliato; ci sono delle necessità militari, come piazzare 100 uomini nelle strutture che si hanno a disposizione, per esempio. E stando lì non bisogna chiudere gli occhi: in quel caso la narrazione ha cercato di censurare un fatto, nel senso giornalistico del termine”.
Vischiosissimo, per un cronista di guerra, pure il lavoro sull’attentato al Crocus City Hall, nei pressi di Mosca. Putin ha addossato la colpa all’Ucraina, mentre la costola afghana dell’Isis lo ha rivendicato. “In questo caso, la prima cosa, per un giornalista, è non cadere nella trappola di farsi guidare dalle proprie convinzioni. Bisogna cercare tutte le reazioni di tutte le parti in gioco, i fatti conclamati fino a quel momento lì. Sulle voci e le teorie che poi iniziano a diffondersi intorno a eventi del genere è necessario non lasciare adito a fraintendimenti, ma al massimo descrivere il contesto usando il condizionale. Ad ogni modo, è un lavoro enorme di verifica delle fonti”.
Ma come nel caso del conflitto russo ucraino è evidente la creazione di due schieramenti mediatici e interpretativi opposti, il medesimo paradigma può essere applicato a maggior ragione alla guerra di Gaza, che Angieri tratterà: “è un caso ancora più emblematico se vogliamo, perché la stampa si schiera apertamente; in più è molto immediato anche per i ragazzi, che lo sentono vicino e ne sono stimolati a livello ideologico, politico ed emotivo. Trovo assolutamente legittime le loro proteste e la loro sensazione che questo conflitto, la sua violenza, non vengano raccontate correttamente da certa stampa”.

Al di là del Laboratorio che Angieri sta conducendo a L’Orientale e del taglio quasi metodologico attraverso il quale spiegare come districarsi tra propaganda e social, c’è un aspetto legato al lavoro sul campo che prescinde dalla professione: vedere la guerra – quindi la morte – con i propri occhi.
“Se scegli di raccontare dalle prime linee, e non dai salottini o dagli hotel delle capitali, devi accollarti la scelta che quelle storie che racconterai diventeranno parte di te; ti arricchiranno, ma diventeranno anche un fardello perché molti di quelli che impari a conoscere poi muoiono. In guerra più ti avvicini alla prima linea, meno valgono le barriere sociali che costruiamo tra noi: mi è capitato più volte di essere trattato come amico di infanzia da soldati mai visti, che iniziano a raccontarti cose intime, esperienze passate. Tutto questo è provocato dalla vicinanza della morte, dalla tensione nervosa altissima. Ci sono elementi che spingono l’empatia a livelli altissimi”.
Dinamiche drammatiche che, per quanto riguarda l’Ucraina, sembrano destinate a ripetersi senza che una fine si stagli all’orizzonte. Le ultime dal fronte sono tutt’altro che rassicuranti: “la situazione è peggiorata molto, le truppe sono esaurite mentalmente oltre che fisicamente. I reparti non effettuano rotazioni da mesi e c’è scarsità di munizioni; nel frattempo i russi stanno avanzando e sul fronte est stanno utilizzando droni di ultima generazione, che costringono i soldati ucraini a stare tutto il giorno rintananti in uno scantinato, magari in dieci. Una condizione esistenziale devastante”. La parola fine – tanto dal fronte, quanto dalle parole e dalle decisioni prese delle alte sfere, che continuano a soffiare sul conflitto – non esiste: “me lo chiedono in tanti, ma sul campo nessuno ne ha idea; sembra che il conflitto si dilati ad libitum”.
Claudio Tranchino

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Ateneapoli – n.06 – 2024 – Pagina 6

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