La politica dei dazi annunciata e poi attuata dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, preoccupa l’Europa e l’Italia. C’è chi paventa il rischio di una grave recessione, chi teme che l’inflazione acceleri e chi ipotizza che i due fattori possano combinarsi fino a creare quella che gli economisti definiscono ‘stagflazione’. Particolarmente in ambasce sono le aziende che esportano molto negli Stati Uniti, per esempio quelle vitivinicole e dell’agroalimentare.
Ateneapoli ha intervistato il 7 aprile il prof. Tullio Jappelli, Ordinario di Economia politica alla Federico II, Direttore del Centro Studi di Economia e Finanza (CSEF), Research Fellow prsso il Center for Economic Policy Research (CEPR) di Londra e presso il Center for Financial Studies (CFS) di Francoforte.
A quanto ammonteranno i dazi sulle esportazioni dei prodotti italiani negli Stati Uniti?
“Dopo l’annuncio di Trump del 2 aprile, consumatori e aziende degli Stati Uniti pagheranno una tassa del 20% sui prodotti importati dall’Unione Europea. I dazi colpiranno tutta l’Unione Europea, accusata da Trump di aver approfittato di politiche commerciali favorevoli per ottenere vantaggi economici, e definita in alcuni casi come un ‘nemico’. Dal punto di vista dei consumatori americani (o delle imprese che acquistano beni intermedi all’estero) i dazi sono simili ad un’imposta sui consumi”.
Quali le conseguenze?
“Immaginiamo che vi sia un bene prodotto in Europa e venduto a 100 dollari negli Stati Uniti. Lo stesso bene, prodotto e venduto negli Stati Uniti, viene venduto a 100 dollari. Dopo che i dazi saranno entrati in vigore, per un consumatore americano acquistare un bene prodotto in Europa del valore di 100 dollari costerà 120 dollari, a meno che l’impresa esportatrice decida di ridurre i propri margini di profitto. Il bene prodotto negli USA potrà continuare ad essere venduto a 100 dollari (o anche ad un prezzo più alto, se i produttori americani decideranno di aumentare i margini di profitto).
I dazi rappresentano quindi allo stesso tempo uno svantaggio per chi esporta negli USA, ed un vantaggio per chi produce negli USA. È importante notare la differenza con l’IVA, che Trump erroneamente considera una barriera commerciale per le merci americane in Europa. Mentre l’IVA colpisce tutti i beni, prodotti in Europa o in USA, i dazi colpiscono solo i beni prodotti in Europa ed esportati negli USA. L’effetto dei dazi sui singoli beni dipende dalla reazione dei consumatori agli aumenti dei prezzi e dalla possibilità di sostituire i beni importati con beni prodotti all’interno.
È probabile che i dazi produrranno una recessione negli Stati Uniti e nel mondo intero: l’aumento dell’inflazione in USA potrebbe spingere la FED (la Banca centrale americana) ad aumentare i tassi di interesse, scoraggiando consumi e investimenti; l’incertezza di queste settimane potrebbe aumentare i risparmi precauzionali dei consumatori, diminuendo la domanda di consumi, particolarmente di quelli durevoli; anche la riduzione dei prezzi delle azioni impoverisce i consumatori e potrebbe ridurre i consumi interni. Questo è il motivo per cui molti economisti temono una fase di inflazione associata ad una recessione”.
Perché sono importanti le esportazioni?
“Ogni anno l’Italia esporta negli Stati Uniti beni per un valore che si aggira intorno ai 67 miliardi di euro, mentre le importazioni provenienti dagli Stati Uniti sono di circa 25 miliardi di euro. Questo scarto evidenzia un saldo commerciale positivo per il nostro Paese nei confronti di uno dei principali partner economici extra-UE. Gli Usa rappresentano il terzo partner commerciale dell’Italia ed il 9% delle nostre esportazioni complessive. I primi due partner sono Germania (12%) e Francia (10%).
La nostra crescita economica è fortemente condizionata dalla componente estera, anche considerando che altri fattori interni non mostrano segnali di forte espansione. Infatti, nonostante l’introduzione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che mira a stimolare la crescita, i consumi interni continuano a crescere a un ritmo relativamente lento. Anche per questo, dopo l’annuncio di Trump, molti centri hanno ridotto le nostre prospettive di crescita del PIL per il 2025 e 2026 di un valore compreso tra 0,3% e 05%”.
Quali settori ne risentiranno in maniera particolare?
“Secondo i dati ISTAT, quasi il 20% delle imprese esportatrici italiane e degli occupati nelle imprese esportatrici potrebbero essere danneggiati dall’introduzione dei nuovi dazi commerciali. Le ricadute dirette su queste aziende, molte delle quali operano in settori chiave dell’economia nazionale, potrebbero compromettere la loro competitività e capacità di generare valore. I settori più colpiti dalle misure protezionistiche sono quello dei macchinari industriali (circa 13 miliardi di esportazioni ogni anno), il settore farmaceutico, quello dei mezzi di trasporto e l’agroalimentare. Tutti questi settori sono particolarmente esposti nei confronti degli Stati Uniti, ma anche di altri paesi, e operano in ambiti in cui la concorrenza sui mercati internazionali è molto forte”.
Trump giustifica questa sua iniziativa come una risposta alle barriere in ingresso che l’Europa frapporrebbe già ora alle merci americane. Cosa c’è di vero in questa sua affermazione, se c’è qualcosa?
“I dazi imposti da Trump sono calcolati prendendo il deficit commerciale degli Stati Uniti verso un certo paese (la differenza tra le esportazioni verso l’USA di quel paese e le importazioni in USA di quel paese), diviso per le importazioni USA, diviso poi ancora per due. Ad esempio, nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato dall’Unione Europea beni per un valore di 605 miliardi di dollari circa, mentre hanno esportato verso l’Unione Europea beni per 370 miliardi, generando un deficit commerciale USA di 235 miliardi circa.
Dividendo 235 per 605, e poi ancora per due, si ottiene il 20% di dazi sulle esportazioni dell’Unione Europea. Come notato da moltissimi economisti, questo calcolo è privo di senso. A parte le considerazioni tecniche, la formula non rappresenta una base credibile per applicare i dazi. In altre parole, non vi è alcuna garanzia che applicando i dazi proposti da Trump si riduca il deficit commerciale USA”.
Perché gli Stati Uniti hanno un forte e persistente deficit commerciale?
“Non dipendono affatto dalle barriere all’entrata o da dazi imposti da altri paesi. Dipende piuttosto dal fatto che gli Stati Uniti hanno un alto disavanzo pubblico (quindi un risparmio pubblico negativo) e consumano molto (quindi poco risparmio privato). Ne segue che il risparmio nazionale USA non è sufficiente a finanziare gli investimenti, che si reggono quindi su afflussi di capitali dall’estero, afflussi sostenuti (almeno finora) dalla forza del dollaro e dal fatto che il dollaro è la valuta di riferimento internazionale. È vero l’opposto di quello che dice Trump: non sono gli americani ad essere danneggiati dal deficit commerciale USA, sono i cittadini degli altri paesi che con il loro risparmio hanno consentito agli americani di vivere ‘al di sopra delle loro possibilità’ (cioè spendendo più di quanto producono).
Un modo per ridurre il deficit commerciale USA sarebbe quello di ridurre il deficit pubblico, aumentando le tasse sui ricchi e riducendo le enormi disuguaglianze sociali. Ma Trump non intende fare questo, spera con i dazi di migliorare le entrate fiscali. Il suo prossimo passo sarà di ridurre le tasse sui ricchi. È per questo che temo che la decisione di Trump, se sarà davvero implementata dopo la moratoria di 90 giorni annunciata il 9 aprile, sia difficilmente reversibile. Per eliminare i dazi, dovrebbe trovare nuove forme di entrate pubbliche. Ma una volta ridotte le tasse, data anche l’ideologia che spinge il suo programma e il suo governo, sarà molto difficile aumentarle di nuovo”.
Fabrizio Geremicca
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Ateneapoli – n. 7 – 2025 – Pagina 3