“E si’ arrivata pure tu, ma je te stevo a aspetta’. Doppo tanto gira’, tanto parla’ straniero, ‘o ssapevo ca’ fernevo cca”. Se siete stati al cinema di recente, probabilmente avrete riconosciuto questi versi e avrete pensato al mare, al sole e alla bella Parthenope, protagonista del nuovo film di Paolo Sorrentino, mentre rema lungo la costa di Posillipo. ‘E si’ arrivata pure tu’ è il titolo di questa colonna sonora e a raccontarcela è il suo autore, Valerio Piccolo.
Questi primi versi, forse, un po’ lo descrivono: nato a Caserta e laureato in Lingue e Letterature Straniere a L’Orientale, specializzandosi in inglese, francese e russo. Buona parte della sua vita l’ha vissuta tra Roma e New York, mettendo la sua conoscenza delle lingue al servizio del cinema come traduttore e adattando in lingua italiana le più famose pellicole degli ultimi vent’anni. Film dal calibro di ‘La la land’, ‘A Star is Born’, ‘Moonlight’… per citarne alcuni. Intanto, è anche musicista e compositore e realizza diversi album, molti dei quali in inglese.
Ecco che, allora, “dopo tanto parlare straniero”, sceglie di scrivere una canzone in napoletano per la prima volta, mosso da “l’urgenza di recuperare le mie origini”. “Sono originario di Caserta, ma a casa mia non si parlava il dialetto e non si ascoltava la musica napoletana. Quest’urgenza credo sia nata dall’esigenza di colmare parti che mi erano molto vicine, ma che non ho vissuto. Oggi sento il bisogno di riprendermi dei pezzi di una Napoli che non ho mai vissuto nel profondo e che ora necessito di conoscere, per capire cosa non ho ancora visto da un punto di vista emotivo”.
Scrive allora questo brano e il pensiero corre subito a Sorrentino: “Questa canzone mi ha subito fatto pensare a Paolo: ci conoscevamo già, perché avevo tradotto molte delle sue opere e ci siamo poi frequentati anche al di fuori del lavoro. Conosceva la mia attività musicale ed è stato abbastanza facile incontrarsi su questo terreno. Ero abbastanza convinto potesse piacergli il pezzo, anche se sapevo poco del film”.
Se, da un lato, confessa di non rivedersi in ‘Parthenope’, non sentendosi un “napoletano verace”, come invece descrive Sorrentino, le varie anime di questa città ritratte dal registra attraverso i suoi personaggi sono, a suo dire, come un “magma che si smuove e che ha risvegliato in me il desiderio di scavare nelle viscere di questa città per capire i rapporti complicati che i napoletani hanno con la loro terra. Questo tipo di difficoltà si ha solo con i rapporti profondissimi, dove si ama davvero”.
Insomma, una vera e propria riscoperta, che parte, appunto, dal recupero del napoletano. È una lingua che andrebbe studiata? La sua risposta è sì: “un po’ come tutti i dialetti, anche se credo ci sia una cosa che faccia del napoletano una lingua che valga la pena studiare in modo diverso: la produzione culturale. È diversa da quella di qualsiasi altro. In determinati momenti storici è stata un punto di riferimento e meriterebbe sicuramente uno studio dedicato. Magari, all’interno di un Corso di Laurea, si potrebbe infilare un occhio particolare su questa lingua e su come ha generato un certo tipo di produzione culturale”.
“Quasi per caso sono arrivato al doppiaggio”
Proprio allo studio delle lingue Valerio Piccolo ha dedicato gran parte della sua vita, sia all’Università che fuori. Ripensa con gratitudine ai suoi giorni da studente a L’Orientale: “La mia Facoltà mi ha dato un approccio molto ampio: le lingue erano centrali nel piano di studi, ma anche tutto quello che vi ho studiato attorno mi ha molto aperto la mente. Ho sempre avuto la sensazione di respirare un abbraccio culturale molto ampio, che andava al di là delle materie”. L’avvicinamento al mondo del cinema, invece, è avvenuto una volta fuori da Palazzo Giusso.
Tuttavia, “quasi per caso sono arrivato al doppiaggio, ma ogni mio percorso lavorativo è stato indipendente dall’università e nessuno mi ha veramente chiesto una laurea”, tant’è che confessa di non avere neanche ancora ritirato la pergamena. Nonostante ciò, “il valore lavorativo che mi hanno dato è stato enorme: da 25 anni sono un traduttore per il doppiaggio e prima ancora letterario”.
Dai banchi è passato poi, per così dire, in cattedra: all’Accademia Nazionale del Cinema di Bologna, è titolare del laboratorio di ‘Adattamento Dialoghi’. Una cosa che gli ha insegnato l’università e che cerca di trasmettere ai suoi studenti? La passione: “Ho avuto insegnanti che mi hanno trasmesso passione, per quello che si insegna e per quello che si studia, a prescindere dall’esame, e questo è quello che sento di voler trasmettere. I ragazzi che formo restano con me un po’ per sempre: mi vengono a chiedere consigli e mi informano sui loro progressi e questo nasce proprio dalla passione”.
Il mondo del cinema è sempre stato percepito un po’ come inavvicinabile: un contesto in cui ci si può inserire solo per conoscenze e dove sperare di entrare in contatto con persone viste sempre e solo attraverso la distanza del grande schermo sembra un’utopia. Se, da un lato, Valerio Piccolo un po’ conferma questa sensazione di chiusura, dovuta anche all’assenza di vere e proprie scuole di formazione canoniche, d’altra parte, come racconta, “io non venivo da Roma e non avevo santi in paradiso, eppure dopo tanti anni sono riuscito ad arrivare un po’ al vertice di questo lavoro e di cose che si possono ottenere. Entrare è difficile, ma non impossibile. La preparazione è l’unica cosa che mi ha portato a dove sono arrivato e ad oggi non c’è nessun altro motivo per cui vengo chiamato”.
“Un buon adattamento parte da una grande traduzione”
A rendere il tutto ancora più complesso è l’assenza di un percorso formativo canonizzato e caratterizzato, per contro, da una ‘giungla’ di Master e workshop privati: “Ancora oggi, in questo campo non viene richiesta una laurea, nonostante io sia uno che si batte tantissimo per questo: la formazione deve essere riconosciuta affinché arrivino persone davvero competenti da un punto di vista linguistico, dato che non sempre è così. Quando insegno, il messaggio che voglio mandare è che un buon adattamento parte sempre prima da una grande traduzione”. Soprattutto in questo momento storico, in cui siamo tutti sotto lo spettro dell’intelligenza artificiale.
Andare al di là della mera traduzione e valorizzare l’aspetto umano della lingua, sembra allora essere l’unico baluardo a cui aggrapparsi perché questa professione non venga travolta dalla digitalizzazione: “Visto quanto già viene fatto in automatico, sicuramente il panorama non è dei migliori. Proprio per questo, però, è il momento di lavorare sulle pieghe di questa materia e andare a scavare dentro le sue sfumature e i suoi fondamentali. Questa finezza nel tessere il proprio vestito da traduttore è la sola cosa che può contrastare l’arrivo di forze esterne”.
Nella sua carriera, essere musicista e adattatore si è rivelata una combinazione vincente, perché una caratteristica essenziale di un buon adattatore è “avere un senso del ritmo spiccato”: “bisogna seguire la musicalità originaria e il ritmo degli attori per far sì che, quando i doppiatori dicono le parole, non si dia la sensazione allo spettatore che l’attore arrivi da un’altra nazione e bisogna seguire tantissimo il ritmo e seguire la musicalità originale. Adattare è molto simile allo scrivere una canzone, ad esempio nella manipolazione della parola, perché calzi in un verso di una canzone o in una battuta di un film”.
“Esplorate i territori di cui studiate la lingua”
Per chi ambisce a diventare la voce italiana dei suoi attori preferiti o a riscrivere i dialoghi perché siano comprensibili al pubblico nazionale, un buon sentiero da seguire potrebbe essere “un Corso di Laurea importante, che dia una formazione a 360 gradi di base. Poi, una Specializzazione al di fuori della classica accademica è necessaria. Proseguite con un Master, ma cercate di capire bene le competenze e la formazione di chi vi insegna”.
Per iniziare ad arricchirvi fin da subito, andate all’estero ed esplorate i territori di cui studiate la lingua: “Dal 2000 ho fatto avanti e indietro da New York e la mia conoscenza del mondo americano mi è servita tantissimo. Dato che gran parte della produzione cinematografica è ambientata in questa realtà, averla compresa da vicino mi ha aiutato a realizzare lavori più calzanti e precisi. È quella conoscenza culturale che ti aiuta a trovare la parola giusta e la fase giusta. Quindi, cimentatevi in uno studio antropologico, stando sul posto, e vivete le realtà che volete tradurre”.
Giulia Cioffi
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Ateneapoli – n. 19-20 – 2024 – Pagina 7