Argo, il cane che accoglie Ulisse ad Itaca dopo il lungo peregrinare dell’eroe greco, lo riconosce e poi muore, è una figura scolpita in modo indelebile nella memoria di chiunque abbia letto l’Odissea. La testimonianza che nel mondo classico, greco e poi romano, si era sviluppato un rapporto con gli animali domestici che andava al di là del loro mero utilizzo funzionale e che metteva in gioco, proprio come oggi, anche affetto e sentimenti. Cani (soprattutto) e gatti erano insomma pure animali – si direbbe oggi – da compagnia. Si tratterà di questi temi il 2 maggio nel seminario che si svolgerà nell’aula AT2B del Cestev (Centro di Servizi di Ateneo per le Scienze e Tecnologie della Vita), la struttura della Federico II ubicata in via De Amicis. Relatore dell’incontro, che è organizzato nell’ambito del corso di Fisiopatologia degli animali domestici per gli studenti del secondo anno di Medicina Veterinaria, tenuto dal prof. Giuseppe Borzacchiello, sarà Michele Di Gerio. ‘Archeozoologo e saggista’ lo definisce la locandina di presentazione dell’evento. Lui, sessantenne calabrese di Castrovillari, con una laurea in Veterinaria ed una in Conservazione dei Beni Culturali (entrambe conseguite a Napoli), si descrive come “uno studioso”. Ateneapoli ha intervistato Di Gerio a metà aprile.
Era frequente in epoca classica la convivenza tra uomini e cani nella stessa casa?
“Il cane era utilizzato per la caccia, come cane da guardia e come cane da salotto. Senofonte nel Cinegetico ci ha lasciato un trattato sulla caccia con i cani, ma in generale ci sono fonti iconografiche importanti che testimoniano l’utilizzo di questi animali per più funzioni. La presenza di cani, per così dire, da compagnia era diffusa in particolare nelle case dei ricchi e ce lo confermano raffigurazioni trovate nelle dimore pompeiane. L’uomo romano era legato al cane. Il quadrupede era rispettato, era parte della famiglia. Stava nelle mura domestiche o nel giardino di casa, il viridarium”.
Quali erano le razze di cane più comuni?
“Non parlerei di razze. Fonti come Plinio il Vecchio, Marco Porcio Catone, Varrone, Columella fanno riferimento più che altro alla provenienza dei cani. I molossidi, per esempio, erano per la maggior parte originari dell’Epiro”.
I romani utilizzavano i cani anche per la guerra?
“Su questo c’è una letteratura cinematografica un poco fuorviante. Non abbiamo una letteratura molto vasta circa l’impiego dei cani in guerra. Non possiamo escludere che accadesse, ma certamente era un aspetto piuttosto residuale”.
In epoca romana erano diffusi anche i gatti come animali da compagnia?
“Sì, sia pure in misura minore dei cani. Anche i gatti svolgevano più funzioni. Animali da salotto e utili cacciatori di topi, che non mancavano mai in quell’epoca”.
Cave canem
Argo è il cane più celebre di epoca greca. Quello più noto, oggi, di epoca romana qual è?
“Se torniamo alle fonti iconografiche, certamente il cane della casa del poeta tragico a Pompei. È quello del mosaico che ringhia alla catena. Icona del perfetto cane da guardia che ha attraversato due millenni. Ritroviamo infatti quella immagine riprodotta ancora oggi, con la relativa scritta Cave canem, all’uscio di case e ville. Altro cane molto noto di epoca romana è quello, anch’esso non in carne ed ossa, ma disegnato, che spaventa uno dei tre giovani nullafacenti ospiti della casa di Trimalcione nel Satyricon di Petronio”.
Nell’antica Roma esisteva il problema del randagismo?
“Sì. Ci sono autori ed opere che danno notizia della presenza di branchi di cani vaganti nelle strade di Roma. Una città che in epoca imperiale superò il milione di abitanti. La presenza di così tanti cani randagi portò con sé inevitabilmente non pochi problemi sanitari. La rabbia, per esempio, se consideriamo la descrizione dei sintomi presente in vari autori, era piuttosto diffusa. I romani avevano capito che proveniva dai cani, sebbene non avessero ovviamente conoscenze mediche relative agli agenti patogeni”.
Nel corso del seminario lei affronterà anche il tema degli animali da reddito nell’antica Roma. Quali erano i più diffusi?
“Bovini, cavalli, pecore, capre e maiali. Erano fondamentali per l’economia romana. La zootecnia era un perno della società romana perché garantiva la produzione di carne e formaggi. In più, bovini domestici e cavalli rappresentavano una importante forza lavoro. Alle macine, per esempio, che trasformavano il frumento in farina. I cavalli erano pure forza da traino per i carri da commercio. Quelli sui quali si caricavano, per esempio, olio e vino. Gli animali da reddito trovavano spazio nella villa rustica. In Campania uno degli esempi sta venendo ora alla luce. È in corso lo scavo di una villa augustea a Somma Vesuviana. Un progetto dell’Università di Tokyo al quale sto collaborando per la parte relativa all’individuazione e catalogazione di reperti di ossa di animali domestici. Negli scavi è impegnato anche il professore Antonio De Simone, archeologo di grande prestigio. Sono emerse, tra l’altro, due grandi mangiatoie per i cavalli”.
Cinghiali, animali di allevamento
Quali altri animali allevavano i romani?
“I cinghiali. Li tenevano in grandi riserve dove c’erano anche mufloni ed altri animali selvatici. Da Plinio sappiamo che c’era una ottima convivenza tra il cinghiale nato in aree chiuse ed i maiali al pascolo. Non è un caso che durante le campagne di scavo emergano non di rado molte ossa di cinghiali. È molto probabile che fossero animali di allevamento. Il primo allevatore di cinghiali del quale ci sono state tramandate notizie fu Fulvio Lepino, che visse in epoca ciceroniana. Il cinghiale rappresentava una fonte significativa di investimento economico sia per la carne che se ne ricavava sia per le ossa che si impiegavano per realizzare manufatti”.
Come si conservava la carne in epoca romana?
“Con il sale. Era un metodo molto utile, tra l’altro, per garantire le vettovaglie alle truppe, ai soldati. In epoca imperiale l’esercito crebbe molto di numero ed era costituito in buona parte anche da soldati – diremmo oggi – di professione. Catone ci racconta che il rancio era costituito da carne, olive e sale. Sorse anche la figura del medico militare professionista”.
Ci sono testimonianze di pratica veterinaria in epoca romana?
“Columella nel primo secolo dopo Cristo descrive un intervento chirurgico ai testicoli di un suino. A Pompei nel diciottesimo secolo nella casa del chirurgo sono stati rinvenuti vari strumenti chirurgici. Nel ventesimo secolo, poi, l’archeologo ed epigrafista Matteo Della Corte scrive che forse qualcuno di quegli strumenti era stato utilizzato per la medicina veterinaria”.
Anche lei si è occupato di strumenti chirurgici in età classica?
“Sì. L’ultimo mio libro, per esempio, che è edito da Guida, s’intitola: La pinza chirurgica di Pompei. Medicina e studi. Ultimamente ho parlato di questi strumenti chirurgici a Focus”.
Al di là degli animali domestici da compagnia e da reddito, quello classico era un mondo nel quale la caccia rivestiva un ruolo molto importante. Ci sono testimonianze nelle arti di questa realtà?
“Sono molte. Con Alessia Foscone, funzionaria ai Beni Culturali, ho partecipato a diversi congressi sugli animali nelle pitture. Lei è una archeologa preistorica. Abbiamo parlato di animali nelle pitture. C’è, per esempio, la grande scena della caccia nella casa dei Ceii a Pompei”.
Fabrizio Geremicca