“Un evento che sono felice di inaugurare per due ragioni: innanzitutto, perché segno distintivo del nostro Ateneo è la filantropia verso altre culture e arti, la multiculturalità che insegna a orientare lo sguardo verso un altro come noi. Avere l’onore di accogliere scrittori di fama mondiale come Matar significa accendere i riflettori non soltanto sul settore dell’arabismo, bensì accedere a una trasversalità delle storie. E qui mi ricollego al secondo punto: il fatto che questo evento sia organizzato in collaborazione con il Salone del Libro e dell’Editoria di Napoli, a dimostrazione della nostra apertura verso le letterature ma anche verso le realtà e i circuiti che ovunque le diffondono”, ha detto la Rettrice Elda Morlicchio in apertura dell’incontro che si è tenuto nella mattinata del 27 marzo presso Palazzo du Mesnil, a cura dell’arabista prof.ssa Monica Ruocco, con lo scrittore anglo-libico Hisham Matar, Premio Pulitzer 2017 nella sezione ‘Autobiografia’ per il romanzo “Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro”, edito da Einaudi. Ha poi preso la parola tra i presenti il Presidente della Fondazione ‘Premio Napoli’ Domenico Ciruzzi, esprimendo i suoi ringraziamenti per la sinergia di forze messe in campo che ha consentito di organizzare giornate di riflessione dal respiro internazionale, “perché è così che si fa tra studiosi, traduttori, giornalisti, letterati ed editori. Bisogna unirsi e discutere, in fondo ognuno di noi svolge in maniera diversa lo stesso compito: raccontare il mondo”. In particolare, l’ultimo romanzo di Matar, oggi docente presso la Columbia University, narra del suo rapporto col padre e della ricerca costante di una figura paterna, una storia letteraria che s’intreccia col vissuto dell’autore, profondamente segnato dal rapimento di suo padre, Jaballa Matar, da parte dalle truppe di Gheddafi nel 1990. “Mio padre si era opposto strenuamente al regime, per questo fu sequestrato e imprigionato nella prigione di Abu Salim. La chiamavano ‘l’ultima fermata’: Era il luogo in cui al tempo venivano incarcerati i detenuti politici e da cui uscirono solo per essere fucilati, nel 1996. Trascorsi quei sei anni, non vi fu mai più nessuna lettera, mai più nessuna notizia di mio padre”, dice Matar (nella traduzione simultanea del prof. Vincenzo Bavaro, docente di Letteratura angloamericana). Il libro assume la forma di un itinerario emotivo del suo viaggio in Libia nel 2011 alla ricerca di notizie su quell’atroce scomparsa. “Imparare a convivere con l’assenza è un fardello pesante. Allora ho scavato dentro di me per trovare la forza di fissare le emozioni. Cercavo uno spazio in cui fare i conti con il distacco dal mio paese e il senso di perdita, ma senza idealizzazioni. Niente ti svela quanto la tua prosa, è questa la meraviglia della letteratura: esprimersi senza il bisogno di dover servire per forza una causa. Ad oggi, la letteratura, come la fantasia, è uno spazio di completa libertà, l’autentico riflesso dello spirito”. A dialogare con l’ospite interviene la giornalista Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter, assassinato nel 1980 dalla ‘Brigata 28 marzo’. “Io e Hisham abbiamo in comune una posizione interessante: chi ha perduto un genitore in circostanze così violente trova sempre la forza di fronteggiare l’ingiustizia e documentarla”. L’esperienza tragica si riflette nella scrittura di Matar, infatti, già nei primi romanzi (“Nessuno al mondo” e “Anatomia di una scomparsa”), in cui esplora i temi dell’esilio, del ruolo dell’artista in quanto cittadino, del potere violento e della denuncia di un’oppressione politica contro i leader della dissidenza. “È possibile, per quanto uno non se l’aspetti, riconoscersi in una vicenda così particolare come quella narrata ne ‘Il ritorno’, perché finisce per diventare l’esperienza universale dell’uomo che si interroga su se stesso e sul rapporto con le proprie personali radici”. ‘Come si innesca nell’artista il processo creativo?’, chiedono gli studenti allo scrittore. “Nel mio caso, mi sento guidato, le parole mi si accumulano quando mi sovviene il ricordo di una particolare esperienza e immagino il modo in cui potrei metterla nero su bianco. Hemingway diceva: ‘per scrivere, devi sederti e iniziare a sanguinare’. Io, invece, dico che per scrivere non bisogna pretendere nulla da se stessi, né mettersi a servizio del proprio ego per sembrare più intelligenti. Piuttosto, essere curiosi: se ci si fa delle domande, il mondo si spalanca dinanzi ai propri occhi. Non essere egoisti, perché la letteratura è un dono che si fa all’altro, non è solo qualcosa di mio. Io scrivo perché voglio creare un contatto, ridurre la distanza che ci separa. Del resto, il libro è morto sullo scaffale finché il lettore giusto non lo apre”.