A lezione di Storia con Aurelio Musi

Una lezione molto particolare per un centinaio di studenti del Dipartimento di Lettere. Hanno avuto la possibilità di incontrare e dibattere con l’autore del volume che studiano al corso di Storia del Mezzogiorno. In cattedra, una  personalità di chiara fama, editorialista di quotidiani e periodici: il prof. Aurelio Musi, Ordinario di Storia Moderna presso l’Università di Salerno. La centralità del Mezzogiorno, considerato una Nazione nella Nazione, è il motivo centrale dell’opera “Il Regno di Napoli” che assembla il risultato di ricerche condotte negli ultimi venti anni. Fermare il pendolo che ondeggia fra mito e realtà: “Fermare l’oscillazione vuol dire riconoscere che c’è un’area, quella napoletana, che vanta una certa consistenza nazionale. Un Regno che è il più antico d’Italia, durato dal 1130 al 1861. Non vi è testimonianza di un’altra realtà che possa vantare una tale continuità Stato-nazione. Ciò spiega anche perché alcuni patrioti risorgimentali dell’Ottocento vagheggiarono la possibilità che da Napoli potesse partire il processo di unificazione nazionale, sebbene gli esiti furono poi diversi. Questa è la chiave di lettura del mio libro: se da un lato identifica con un sentimento d’orgoglio il peso della nostra storia nel contesto nazionale, al contempo ne evita il processo di mitizzazione”, ha detto Musi durante la lectio magistralis che si è tenuta il 18 ottobre presso il Dipartimento, evento organizzato e moderato dal prof. Giulio Sodano, docente di Storia del Mezzogiorno. Un’esaltazione che si riscontra anche nello storico motto dell’autore Velardiniello, che nelle sue Stanze declamava: ‘Sai quando fuste, Napoli, Corona? Quando regnava Casa d’Aragona!’. Un periodo nel quale la città di Napoli conobbe un particolare momento di fioritura nei vari campi del sapere ma anche e soprattutto nell’affermazione politica. “L’istituzione monarchica rivestì un ruolo importantissimo nella storia del Regno – afferma Musi – dando origine ad un sentimento molto radicato e diffuso di rispetto e devozione da parte del popolo nei confronti del potere costituito. Nella figura del sovrano si rispecchiava l’identità di un popolo. Ciò accadde poiché vi era una coincidenza tra Napoli e la Corona: Napoli era il Regno, la capitale gli conferì una vera e propria identità”. Devozione, beninteso, come rispetto dell’istituzione in sé, lontana dall’aspetto sacrale di alcune monarchie europee, così come sottolinea il prof. Sodano rispondendo alla domanda di uno studente, Giuseppe, che chiede come nel corso dei secoli si sia potuto mantenere il concetto cultuale della figura del re: “Più che di sacralità sarebbe giusto parlare di fedeltà alla dinastia regnante. Quello di venerabilità è un concetto non molto presente nella linea asburgica e borbonica, mentre  sussiste nelle monarchie francesi ed inglesi. Si pensi che, anche in seguito alla conversione protestante dei re inglesi, Elisabetta ed i suoi successori continuarono ad esercitare il rito del tocco miracoloso delle scrofole. Il re a Napoli rappresentava la figura capace di assicurare il buon governo ed al contempo in grado di difendere la religiosità del suo popolo, senza necessariamente essere investito di un carattere sacro”. C’è, però, un elemento che accomuna tutte le dinastie: “L’immagine, che viene sviluppata nella seconda metà del Quattrocento, sostiene, per il sovrano, l’esistenza di un corpo naturale, mortale, soggetto al deperimento, ed un corpo politico invisibile, immortale, che mai invecchia o deperisce. È questa finzione giuridica – spiega Musi – che anima i sudditi, piuttosto che la venerabilità”.  Giovanni, un altro studente, chiede come sia possibile, alla luce della testimoniata lealtà verso il potere costituito, l’inversione di tendenza che vide il popolo piegarsi alle logiche dell’unificazione nazionale. “Lo stato borbonico cedette proprio perché entrò in crisi il suo rapporto con la popolazione. Avvenne una vera e propria implosione. Negli ultimi anni del Regno – sottolinea Musi – i sovrani non avevano neanche più lo stesso ruolo nella politica internazionale così come nella politica governativa. Molti furono i motivi di debolezza che via via condussero ad una sfiducia nei confronti dell’istituzione politica. Ciò nonostante non venne meno il sentimento di fedeltà all’istituzione monarchica”. Lealismo che si estese anche ai Savoia, successivamente. Francesca, altra studentessa del corso, si interroga sulla fioritura, da qualche decennio, di movimenti neoborbonici, a tratti nostalgici. “Il processo di costruzione mitica verso un’epoca precedente è tipico delle fasi di passaggio, di crisi, di transizione. L’età borbonica, però, viene mitizzata in riferimento al periodo napoletano che va dal 1734 al 1860 come un blocco unico – considera Musi – inteso soltanto nel suo momento di ascesa, senza considerarne la discesa della parabola politica. D’altro canto è pur vero che ogni mito ha un fondamento di realtà. Il problema, però, sorge quando esso viene assolutizzato ed inteso come unico valore di riferimento”. La stessa rivolta di Masaniello, fa notare Valentina, studentessa, assunse successivamente dei tratti mitici. Vi si attribuì le vesti di un moto indipendentista, quasi secessionista, piuttosto che quelle storicamente attestate di rivolta a sostegno del popolo per l’abolizione delle gabelle imposte sui beni primari. “La rivolta venne intesa dai risorgimentali come un moto di liberazione dalla Spagna – afferma Musi – Ma non è neppure da tenere in considerazione questa possibilità. Per Masaniello, così come per i sudditi in generale, la fedeltà al re era al primo posto insieme a quella nei confronti di Dio. Egli metterà in discussione gli abusi ma non l’istituzione giuridica in sé che è un sistema di diritti riconosciuti dal sovrano attraverso l’investitura. Tutto ciò non rientra nell’indipendentismo. Ci troviamo di fronte ad un caso di vero e proprio sentimento di libertà sui generis, dove vige costantemente un meccanismo di fedeltà più forte di quello di indipendenza”. 
Maria Teresa Perrotta
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