Ha destato notevole interesse la notizia della scoperta per la prima volta dei resti di cervello vetrificati in una vittima dell’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo ritrovata nel Collegio degli Agustali ad Ercolano. Il New England Journal of Medicine, prestigiosa rivista medica leader a livello mondiale, ha pubblicato i risultati di uno studio condotto dalla squadra di antropologi e ricercatori guidata da Pier Paolo Petrone, biologo ed antropologo forense dell’Università Federico II, cui ha collaborato la direzione del Parco Archeologico di Ercolano. Le indagini di proteomica (disciplina biologica che studia le proteine cellulari) sono state eseguite dai ricercatori del CEINGE-Biotecnologie avanzate, guidati dal prof. Piero Pucci, coordinatore del Laboratorio di Proteomica e ordinario di Chimica Biologica alla Federico II. Hanno permesso di identificare il campione verificato come tessuto cerebrale. L’ipotesi degli studiosi è che l’alta temperatura sia stata in grado di bruciare il grasso e i tessuti corporei, in modo simile a quanto documentato per le vittime dei tremendi bombardamenti di Dresda ed Amburgo durante la Seconda Guerra Mondiale. “Le nostre analisi hanno evidenziato la presenza di acidi grassi tipici dei capelli e di proteine specifiche del cervello – spiega Pucci – e questi dati hanno permesso di identificare in modo inequivocabile il campione come proveniente dal cervello della vittima”. Aggiunge Petrone: “La conservazione di tessuto cerebrale umano antico è un evento estremamente raro, ma è la prima volta in assoluto che vengono scoperti resti umani di cervello vetrificati per effetto del calore prodotto nel corso di una eruzione vulcanica”. Il ricercatore è impegnato da circa un quarto di secolo nello studio dei resti delle vittime dell’eruzione vesuviana e di quella, ancora più devastante, di 4000 anni fa e dirige il Laboratorio di Osteobiologia umana ed Antropologia forense che afferisce al Dipartimento di Scienze biomediche avanzate dell’Ateneo federiciano.
Una missione affascinante
Come un moderno ispettore sulla scena del crimine, effettua rilievi sulle ossa, scatta fotografie e poi esamina con mezzi più sofisticati – radiografie, indagini sul Dna, Tac – i reperti in laboratorio. Il suo obiettivo è di raccogliere il maggior numero possibile di indizi sulle modalità attraverso le quali la lava e soprattutto le ceneri uccisero gli abitanti delle città vesuviane. Una missione affascinante e non priva di risvolti di attualità, perché i dati che emergono potrebbero risultare utili anche a calibrare meglio i piani e le strategie di evacuazione in previsione di una eventuale nuova eruzione.
“Ho iniziato oltre venti anni fa – racconta – ad interessarmi delle vittime del Vesuvio. Prima avevo effettuato scavi e ricerche in posti diversi, per esempio in Marocco ed in Pakistan. L’occasione di immergermi nel dramma del 79 dopo Cristo fu il ritrovamento di decine e decine di vittime sull’antica spiaggia di Ercolano. Si erano rifugiate lì perché immaginavano che fossero al sicuro dalle scosse di terremoto che si susseguivano. Era quello che incuteva loro terrore perché serbavano memoria del forte sisma che aveva colpito la zona diciassette anni prima. Avevano scelto per questo alcuni edifici con la volta a botte, simili ai ricoveri per le barche che si vedono ancora oggi su alcune isole, per esempio a Procida. Non temevano il Vesuvio perché si era persa ogni memoria delle più antiche eruzioni. Credevano fosse una bella montagna e null’altro. Dal Vesuvio intorno alla mezzanotte, quando collassò la colonna pliniana, arrivò la morte sotto forma di cenere. Fu istantanea, come appurai sulla base dei rilievi che ebbi modo di svolgere su quel che rimaneva di quegli antichi abitanti di Ercolano”. La ricostruzione della scena della tragedia avvenne su migliaia di reperti ossei disseminati in dodici camere a volta, ciascuna delle quali ospitava tra trenta e quaranta rifugiati. La cenere “li ricoprì a strati. In fondo c’erano i bimbi, che a quell’ora certamente dormivano”. Nel corso degli anni gli studi condotti da Petrone sui reperti di chi non scampò allo ‘sterminator Vesevo’ hanno permesso di appurare, tra l’altro, che gli abitanti di Ercolano furono investiti da una ondata di calore di 500 gradi centigradi, quelli di Oplonti di 600 gradi centigradi ed i pompeiani di 300 gradi centigradi. Ad Ercolano i tessuti corporei furono letteralmente vaporizzati. A Pompei, dove pure la morte fu istantanea, restarono intatti.
“Ho iniziato oltre venti anni fa – racconta – ad interessarmi delle vittime del Vesuvio. Prima avevo effettuato scavi e ricerche in posti diversi, per esempio in Marocco ed in Pakistan. L’occasione di immergermi nel dramma del 79 dopo Cristo fu il ritrovamento di decine e decine di vittime sull’antica spiaggia di Ercolano. Si erano rifugiate lì perché immaginavano che fossero al sicuro dalle scosse di terremoto che si susseguivano. Era quello che incuteva loro terrore perché serbavano memoria del forte sisma che aveva colpito la zona diciassette anni prima. Avevano scelto per questo alcuni edifici con la volta a botte, simili ai ricoveri per le barche che si vedono ancora oggi su alcune isole, per esempio a Procida. Non temevano il Vesuvio perché si era persa ogni memoria delle più antiche eruzioni. Credevano fosse una bella montagna e null’altro. Dal Vesuvio intorno alla mezzanotte, quando collassò la colonna pliniana, arrivò la morte sotto forma di cenere. Fu istantanea, come appurai sulla base dei rilievi che ebbi modo di svolgere su quel che rimaneva di quegli antichi abitanti di Ercolano”. La ricostruzione della scena della tragedia avvenne su migliaia di reperti ossei disseminati in dodici camere a volta, ciascuna delle quali ospitava tra trenta e quaranta rifugiati. La cenere “li ricoprì a strati. In fondo c’erano i bimbi, che a quell’ora certamente dormivano”. Nel corso degli anni gli studi condotti da Petrone sui reperti di chi non scampò allo ‘sterminator Vesevo’ hanno permesso di appurare, tra l’altro, che gli abitanti di Ercolano furono investiti da una ondata di calore di 500 gradi centigradi, quelli di Oplonti di 600 gradi centigradi ed i pompeiani di 300 gradi centigradi. Ad Ercolano i tessuti corporei furono letteralmente vaporizzati. A Pompei, dove pure la morte fu istantanea, restarono intatti.
“L’unico modo per salvarsi è non essere presenti”
Gli ultimi gesti, le pose di chi morì, conservati per sempre dalla cenere, lasciano indifferenti il ricercatore oppure, nonostante lo sguardo freddo dello scienziato e la grande distanza di tempo tra quella tragedia ed i nostri giorni, emozionano chi li osserva? “È un lavoro vivo – risponde l’antropologo – se mi si concede l’espressione. Quelle ossa, le fratture di calore, il galleggiamento dei reperti nella cenere parlano e ci raccontano due cose. La prima è la tragedia umana della morte, soprattutto se improvvisa e provocata da una calamità terrificante come fu l’eruzione vesuviana. Non si può non immaginare per un attimo, attraversando i secoli, cosa furono le loro vite, i loro affetti, i loro desideri e quale terrore provarono, se ne ebbero il tempo, a fronte di quel cataclisma. La seconda cosa che ci raccontano le vittime del Vesuvio è che l’unico modo per salvarsi durante una eruzione è non essere presenti. Tra i 5000 abitanti di Ercolano scamparono non quelli che si rifugiarono sulla spiaggia, ma quelli che si spostarono il più rapidamente possibile in direzione opposta rispetto a quella nella quale si manifestava il fenomeno. Così come si salvarono gli antichi che 4000 anni fa scapparono verso nord ovest dalla zona dove ora è San Paolo Belsito”. Traslare nell’attualità questa evidenza dei dati relativa al passato significa – sostiene Petrone – affermare che un piano di evacuazione adeguato oggi dovrebbe prevedere lo spostamento di tutti quelli che risiedono nel raggio di venti chilometri dal vulcano. Parliamo di tre milioni di persone. “Anche perché – sottolinea – il modello di eruzione del 79 dopo Cristo potrebbe non essere quello di una futura ripresa dell’attività. Esistono scenari peggiori – l’eruzione di 4000 anni fa è uno di essi – e vanno presi in considerazione per non trovarsi impreparati qualora essi si manifestassero”.
Cosa consiglierebbe, infine, il prof. Petrone ad uno studente che desideri intraprendere il suo stesso percorso? “È una domanda – dice – alla quale ho difficoltà a rispondere perché io mi sono costruito da solo in venti anni di libera professione lavorando su scavi, mostre e quant’altro. Ci sono Master ma non c’è un percorso specifico. Si dovrebbero attivare linee di formazione in un qualche Dipartimento. Queste sono ricerche che uniscono biologia, geologia ed archeologia, per cui un buon inizio potrebbe essere di formarsi molto bene in uno di questi settori. Poi, sul campo occorre la capacità di fare squadra perché bisogna mettere in campo competenze di ambiti disciplinari diversi. La scoperta dei resti di cervello è la testimonianza migliore di quel che dico”.
Cosa consiglierebbe, infine, il prof. Petrone ad uno studente che desideri intraprendere il suo stesso percorso? “È una domanda – dice – alla quale ho difficoltà a rispondere perché io mi sono costruito da solo in venti anni di libera professione lavorando su scavi, mostre e quant’altro. Ci sono Master ma non c’è un percorso specifico. Si dovrebbero attivare linee di formazione in un qualche Dipartimento. Queste sono ricerche che uniscono biologia, geologia ed archeologia, per cui un buon inizio potrebbe essere di formarsi molto bene in uno di questi settori. Poi, sul campo occorre la capacità di fare squadra perché bisogna mettere in campo competenze di ambiti disciplinari diversi. La scoperta dei resti di cervello è la testimonianza migliore di quel che dico”.
Fabrizio Geremicca