Emergenza cinghiali Come trasformare un danno in risorsa

Sempre più spesso sui media compaiono articoli e servizi dedicati alla questione del sovrappopolamento dei cinghiali e dei danni che questa situazione determina all’agricoltura. L’Ateneo Federico II, in particolare con il Dipartimento di Medicina Veterinaria, è impegnato in vari progetti di ricerca su questo tema. È parte, per esempio, di Enetwild, consorzio composto da istituti di ricerca per l’ecologia e la salute delle fauna, partner attuativo dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) per il progetto “Fauna selvatica: raccolta e condivisione di dati sulle popolazioni selvatiche, trasmissione di agenti patogeni”. Uno dei principali obiettivi del consorzio è raccogliere dati sulla distribuzione geografica ed abbondanza del cinghiale in Europa per consentire una attenta analisi dei fattori di rischio, delle principali malattie trasmissibili tra animali selvatici e domestici con particolare riferimento alla peste suina africana, la cui presenza è stata segnalata recentemente in alcuni paesi europei. Il contributo della Federico II è quello di condividere, con altri gruppi di esperti europei, dati scientifici sulla presenza del cinghiale in sud Italia e sul monitoraggio sanitario eseguito negli ultimi anni su questo ungulato. Tra i docenti di Veterinaria, uno degli esperti sul fronte cinghiali è il professor Vincenzo Veneziano, che insegna Parassitologia e malattie parassitarie degli animali ed è stato uno dei relatori del convegno sulla sicurezza della carne di cinghiale che si è tenuto il 12 aprile alla Federico II. Partiamo dai numeri. Sono davvero aumentati in misura esponenziale i cinghiali negli ultimi anni in Italia?
“Non solo in Italia, perché il problema del cinghiale è europeo. La popolazione in trent’anni è cresciuta ovunque. La Campania non fa eccezione. Non esiste un censimento esatto, ma una cifra può aiutare a comprendere il fenomeno. Ogni anno in Italia finiscono nel carniere dei cacciatori 300 mila cinghiali, che sono ovviamente una parte minoritaria della popolazione complessiva di questi animali”. 
Mancano i grandi 
predatori
Quali sono i motivi di questo incremento così imponente?
“Le cause sono varie. Una di esse è la mancanza di grandi predatori. I cinghiali sono preda essenzialmente solo degli orsi, dei lupi e delle linci. Un altro elemento è la riforestazione determinata dall’abbandono dei suoli agricoli. Gioca anche la riduzione della pressione venatoria, perché la caccia è sempre meno praticata, specie tra i giovani. Ancora, influisce il cambiamento climatico, perché gli inverni sono mediamente molto meno rigidi rispetto ad alcuni decenni fa. Questo fa sì che i cinghiali abbiano più disponibilità alimentare. Partoriscono tra marzo ed aprile sei o sette piccoli, che si chiamano striati, ma in annate con clima mite e disponibilità di cibo una mamma mette al mondo anche due cucciolate”. 
È vero che la proliferazione eccessiva dei cinghiali in Italia è anche il risultato dell’immissione a scopo venatorio, nel nostro territorio, di una specie proveniente dall’est dell’Europa, più prolifica di quella diffusa in Italia?
“In parte è vero. Così come va sottolineato che sono in giro anche moltissimi ibridi, animali nati dall’accoppiamento tra cinghiali e maiali”. 
Lei prima accennava al ruolo dei grandi predatori nel contenimento della popolazione dei cinghiali. Può essere più preciso?
“Un singolo lupo può predare cinquanta cinghiali all’anno. Non sono pochi. Il lupo è un predatore selettivo, inoltre significa che uccide gli animali più giovani e riduce la potenzialità riproduttiva. Il cinghiale ha una organizzazione matriarcale. Il branco è formato da una femmina adulta con femmine più giovani. Le sussidiarie più giovani vanno in estro se la matriarca è abbattuta. Per questo a volte l’abbattimento selettivo ad opera dei cacciatori può risultare controproducente. I cacciatori tendono ad uccidere le femmine adulte ed i maschi, ma dovrebbero colpire le femmine giovani”.
Qual è l’habitat del cinghiale?
“È diffuso in tutta Europa tranne che in Inghilterra ed in una parte dei Paesi scandinavi. Ha una grossa adattabilità biologica. Negli ultimi tempi sempre più è diventato un animale periurbano, analogamente alle volpi. Frequenta le periferie delle città e trova alimento nella spazzatura e nelle discariche. È stato dimostrato che i cinghiali nelle zone urbane hanno un peso del trenta o trentacinque per cento in più rispetto a quelli delle aree campestri”. 
Immondizia a parte, di che si nutrono i cinghiali?
“Tuberi e radici in primis. Con il grugno scavano come un aratro in profondità. Smuovono anche pietre e rocce di venti o trenta chili. Sono, comunque, animali onnivori. Mangiano anche insetti e perfino carogne di altre specie, come la volpe, o di altri cinghiali. La trichinellosi, una zoonosi che si trasmette all’uomo dalla carne poco cotta dei cinghiali, oltre che dei maiali e di altri animali, deriva proprio dall’abitudine che hanno di nutrirsi di carogne”. 
Valutazione sanitaria della fauna selvatica, un
settore promettente
per gli studenti
I danni all’agricoltura derivano dal comportamento dei cinghiali di scavare per cercare il cibo?
“Sì. Immagini, per esempio, i danni che sono in grado di provocare in un vigneto di pregio”. 
La Regione Campania ha varato tempo fa un piano di emergenza cinghiale. Il Dipartimento è stato coinvolto?
“Sì. Il piano punta ad indagare sulla presenza della specie, sui danni e sull’impatto sugli animali domestici. Il cinghiale, per esempio, può essere una sentinella per la tubercolosi bovina. Abbiamo avviato una serie di attività relative alla predisposizione di una documentazione uniforme che dia conto degli esiti del monitoraggio affidato alle schede in possesso delle squadre di abbattimento. Abbiamo svolto una formazione per i cacciatori. Quelli formati sono un migliaio e conoscono le problematiche sanitarie del cinghiale. Non trascurabili, perché in Campania si abbattono 10 mila cinghiali all’anno ed ognuno di essi può raggiungere fino a 150 consumatori. Non è detto che un animale selvatico sia sano perché viene dal bosco. È fondamentale che la filiera della carne di cinghiale sia controllata dall’origine al consumatore. Ci sto lavorando con i colleghi Aniello Anastasio e Alessandro Fioretti. Obiettivo deve essere trasformare questo animale da danno in risorsa. Evitare, per esempio, che arrivi carne congelata dall’Ungheria e dalla Spagna e fare in modo che si consumi carne controllata di cinghiali abbattuti in Campania. Per gli studenti è un settore promettente. Ci sono già quindici borsisti che mettono in relazione le attività delle Asl con specifiche competenze sulla gestione e sulla valutazione sanitaria della fauna selvatica”. 
Esistono alternative non cruente e meno controverse dell’abbattimento a pallettoni per controllare la popolazione dei cinghiali?
“Una ipotesi alternativa è di intrappolarli nei chiusini per trasferirli altrove, alleggerendo il peso in un’area sovrappopolata. Ci sono poi studi relativi ad un progetto di vaccino che riduca la potenzialità riproduttiva del cinghiale. Anche su questo la Federico II è in prima linea, perché ci sta lavorando, per esempio, il prof. Giuseppe Campanile”. 
Fabrizio Geremicca
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