Fuga dei cervelli: quanto costa ai genitori ‘a distanza’ un figlio in giro per il mondo?

Nell’ultimo decennio – secondo le stime di Maddalena Tirabassi, direttrice del Centro Altreitalie – 780 mila cittadini italiani, un terzo dei quali in possesso della laurea ed oltre il 51% con una età tra i 15 ed i 39 anni – si sono trasferiti all’estero. Confindustria rileva che la fuga dei cervelli fa perdere all’Italia, in termini di capitale umano, circa 14 miliardi all’anno, una cifra che equivale ad un punto percentuale del Prodotto Interno Lordo.
Brunella Rallo, sociologa napoletana e fondatrice del blog mammedicervellinfuga.com, genitrice di un ragazzo ed una ragazza che alcuni anni fa si trasferirono negli Stati Uniti per un dottorato di ricerca e sono rimasti negli Usa, dove hanno trovato un lavoro ed hanno messo su famiglia, si è posta ora una seconda domanda: “Quale è il costo economico di un figlio che lascia l’Italia per andare a cercare la sua strada all’estero o che si trasferisce dal suo luogo di residenza in altre aree della penisola?”. Per capirlo, in collaborazione con il Centro Altreitalie, il blog ha promosso un questionario al quale si può partecipare collegandosi al sito ‘mamme di cervelli in fuga’ oppure alla pagina on-line di Altreitalie o a facebook. È partito a metà marzo e, nella prima settimana, ha già raccolto 500 risposte. La raccolta dei dati proseguirà almeno fino al 15 o 20 aprile. Obiettivo: “tracciare i contorni e le dimensioni di questo fenomeno che riguarda sempre di più i giovani – e i meno giovani – del nostro Paese e le loro famiglie per cercare di fornire risposte che possano essere di aiuto ai genitori, ai figli, ma anche alle istituzioni”. Il questionario on-line – in due versioni, una per chi ha figli all’estero e una per chi ha figli in altre regioni italiane – composto da una sessantina di domande, si propone dunque di identificare e quantificare le diverse tipologie di spesa – dalla retta del college/università all’affitto, dalle spese mediche ai viaggi da e per il luogo di origine – nonché il contributo globale che la famiglia fornisce ai figli lontani. Si cerca altresì di capire il livello di autonomia economica dei nuovi migranti: da quelli che vanno via per studiare a quelli che si sono stabiliti nel nuovo Paese di residenza, spesso mettendo su famiglia, fino a coloro i quali contribuiscono al sostentamento dei parenti in Italia attraverso le rimesse.
Il blog mammedicervellinfuga.com – racconta Brunella Rallo – è nato a settembre 2016: “L’ho creato, grazie alla collaborazione di uno studio di grafica e comunicazione, perché sono mamma di due ragazzi all’estero – sono partiti nel 2003 e nel 2010 ed oggi insegnano a Boston e New York, uno è laureato in Economia, l’altra in Studi mediorientali a Napoli – e sono una sociologa. Osservavo il fenomeno della fuga di cervelli, riflettevo sulla mia situazione e su quella delle famiglie come la mia. Quelle di questi ragazzi che girano in tutto il mondo. Ho iniziato così ad interessarmi di come si vive da genitori a distanza ed ho creato un blog piuttosto che scrivere un libro. Il blog ha 7000 followers. Raccogliamo testimonianze, sfoghi e considerazioni di madri e padri di ragazzi italiani in giro per il mondo. Nei primi 18 mesi abbiamo affrontato gli aspetti emotivi ed emozionali dell’essere genitori a distanza: l’ansia, l’orgoglio, la rabbia, l’ammirazione”. Messo da parte questo approccio, ora si riflette sui costi economici: “Si dibatte molto, opportunamente, sulla questione dei costi pubblici ed i dati di Confindustria relativi alla perdita dell’uno per cento del Pil sono emblematici. L’Italia investe nella istruzione di persone che, poi, vanno altrove a spendere le proprie competenze. Nulla, o quasi, si è detto finora circa i costi privati, quelli che sopportiamo noi genitori”. Prosegue Rallo: “Non so cosa possa venire fuori dai questionari, perché la composizione delle famiglie è molto articolata ed ha una grande variabilità. Una cosa è la famiglia alto borghese con un figlio che frequenta il Master in Business Administration a Philadelfia, altra quella che ha un figlio che lavora come sommelier a Berlino o a Katmandu. Staremo a vedere. Quale che sia il risultato, spero che la raccolta dei dati aiuterà a comprendere un po’ meglio il pianeta del quale anche io faccio parte”.
Si abbassa l’età della partenza, effetto dei 
programmi di scambio
Ma quanti sono gli italiani che vanno all’estero e cosa fanno? “Nell’ultimo anno – risponde Rallo – si sono registrati in 50 mila all’Aire, l’anagrafe italiana degli italiani residenti all’estero. Poiché non tutti quelli che espatriano si registrano, credo non sia azzardato ipotizzare che la cifra indicata – 50 mila – vada ritoccata sensibilmente al rialzo se non addirittura raddoppiata. Circa le occupazioni, il panorama è estremamente eterogeneo. Al di là dei lavori classici – pizzaioli, parrucchieri – o di quelli legati alla finanza, presenti soprattutto in Gran Bretagna, in Francia e negli Stati Uniti, ci sono realtà meno conosciute. Nessuno immaginerebbe, per esempio, che non pochi italiani in Australia lavorano come personal trainer o che in America Latina si cimentano ragazzi italiani con una serie di mestieri legati al mondo dell’arte o della comunicazione. Si abbassa sempre di più l’età in cui partono e questo potrebbe essere l’effetto di programmi di scambio interculturale: il 12 per cento dei ragazzi che ha seguito uno di questi programmi resta all’estero per l’università”. Antonio Calabrò, giornalista e saggista, ha scritto che un paese non si impoverisce perché i suoi giovani partono, ma perché nessuno torna e nessuno arriva da altri paesi. Rallo condivide questa osservazione: “Il problema non è che i nostri giovani vanno fuori, ma è che l’Italia non è un paese attrattivo. I giovani tedeschi vanno via, però poi tornano, e tantissimi europei e non europei vanno a studiare e lavorare in Germania. C’è una circolazione che manca in Italia”. 
Questione, secondo la sociologa, legata più alla debolezza strutturale del nostro mercato del lavoro che a presunte inadeguatezze del sistema formativo universitario. Riflette: “c’è un tessuto economico ed imprenditoriale che non è in grado di assorbire competenze”. 
Fabrizio Geremicca
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