Il dialetto su whatsapp e nelle campagne pubblicitarie

La maggioranza degli italiani almeno una volta nella vita ha utilizzato il proprio dialetto per esprimere in modo estemporaneo un concetto. Istinto, emotività, intenzione di arrivare dritti al sodo senza incorrere in possibili fraintendimenti; viscerale. Ma in quanti si sono chiesti quale fosse la forma corretta nell’ipotesi di gettarla su carta? “Come si scrive il dialetto” (un’espressione che può risultare affermativa e interrogativa al tempo stesso) è il titolo del seminario ideato e promosso dal prof. Francesco Montuori, Coordinatore del Cds in Lettere Moderne e docente di Linguistica italiana. La motivazione sottesa al corso: “Quando insegniamo storia della lingua italiana, inseriamo anche i dialetti perché tocchiamo tutte le lingue che si parlano in Italia”. Un percorso di 6 ore (20, 21 e 27 maggio dalle ore 15 alle 17) aperto a massimo 40 studenti della sola Triennale, che rientra nel progetto delle attività integrative in presenza volute per il Cds proprio da Montuori, “per restituire un po’ di Università ai ragazzi”. Ma, considerando i canoni dell’ambiente accademico, il seminario in questione potrebbe indurre a credere che il referente focalizzerà il raggio d’azione concettuale sulla corretta ortografia del dialetto napoletano o friulano, tanto per fare degli esempi. Nient’affatto. Dunque, quale la vera direttrice? Montuori tirerà dritto sul loro uso – sempre più frequente e impattante – nei social e nelle campagne pubblicitarie, perché “il vero nucleo problematico sta tutto qui. Il vernacolo non si scrive, ma da qualche anno sembra esserci una maggiore esigenza di farlo. Trovo tutto ciò estremamente positivo”. Detto altrimenti: cogliere le relazioni con le forme attuali della comunicazione di massa. Una frase in dialetto, pubblicata in un commento su facebook, “ha una propria dignità. Il dialetto è emotivo e non ha un’ortografia definita, a meno che non si faccia riferimento al percorso storico che parte da Giambattista Basile, passa per Salvatore Di Giacomo e arriva ad Eduardo De Filippo”. Questa, dunque, la domanda che darà il là ad un sicuro dibattito: “quali sono i problemi che si pongono allo scrivente che non ha mai scritto in dialetto o non è abituato?”. Non mancheranno proposte su possibili soluzioni, che saranno vagliate a partire da riferimenti “a scritture spontanee – ribadisce il referente – che si tratti di graffiti, messaggi whatsapp, di campagne pubblicitarie della Nutella o Napolimania. Sono forme d’espressione già sotto la lente d’ingrandimento”. Altrettanto interessante è capire l’appetibilità del dialetto nel mondo editoriale. Presto detto. Non attecchisce “perché si è poco abituati a leggerlo, non sussiste la consuetudine”, risponde secco Montuori, che tuttavia non trae conseguenze negative: “l’opinione degli studiosi è che la lettura del dialetto sia assolutamente necessaria quando questo è poco utilizzato, come opera di rivitalizzazione”. Non pare proprio il caso di quello “napulitan”.
Claudio Tranchino

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