Il fine dell’insegnamento? Aiutare lo studente a riflettere e a fare da sé

“La vita del pensionato non fa al mio caso. Aver lasciato l’insegnamento all’Università non vuol dire sicuramente abbandonare la mia attività di ricerca”, afferma il prof. Paolo Jossa, docente di Tecnica delle Costruzioni della Facoltà di Architettura, all’indomani del pensionamento. “Non posso negare che, quando mi capita di incontrare degli amici che hanno smesso di lavorare il giorno stesso dell’entrata ufficiale in pensione, faccio fatica a spiegarmi come riescano a trascorrere le giornate”, aggiunge.
Una lunga carriera, quella del prof. Jossa. Laureatosi nel 1957 in Ingegneria, ha trascorso il primo periodo post-lauream svolgendo attività professionale. Ha cominciato la sua attività accademica nel 1967, superando il concorso per diventare assistente di Meccanica Razionale (materia che ha come oggetto di studio il moto dei sistemi meccanici e che attualmente non viene più insegnata) alla Facoltà di Ingegneria della Federico II. Dal 1971 al 1976 è stato docente di Tecnica delle Costruzioni alla Facoltà di Architettura dell’Università di Reggio Calabria. Nel 1980 è diventato professore ordinario di Tecnica delle Costruzioni e, a partire da quella data in poi, ha sempre insegnato questa materia presso la Facoltà di Architettura di Napoli. 
Un ricordo dei suoi primi anni di insegnamento in Calabria: “in quegli anni, in un ateneo del profondo sud, non era ancora diffusa la mentalità universitaria. Anche le attrezzature erano deboli e le biblioteche poco fornite. Inutile dire che internet era un concetto a dir poco impensabile. Di conseguenza, i ricercatori non avevano facilmente accesso alle informazioni sullo stato dell’arte della disciplina che studiavano, rischiando di andare a sviscerare questioni che invece erano state ampiamente trattate e risolte”.
La didattica e i mutamenti negli ordinamenti. “I problemi legati alla didattica mi hanno sempre coinvolto parecchio. Non ho  condiviso molte diversificazioni avvenute nel corso di tutti questi anni. Mi riferisco in primo luogo alla proliferazione degli insegnamenti”. Critico anche sull’impegno degli studenti a tempo pieno: “ritengo ci debba essere un momento in cui l’allievo rifletta da solo su quello che gli è stato spiegato durante la lezione. Se i corsi durano tutta la giornata, è difficile trovare il tempo di concentrarsi nello studio e nel ragionamento. Il professore deve dare agli studenti una serie di input, in modo da insegnare loro a risolvere da sé i problemi. Questo significa far capire agli allievi che non devono avere un atteggiamento passivo nei confronti di ciò che li circonda. E’ questo che bisogna insegnare davvero, le materie universitarie sono solo degli strumenti  per formare una coscienza critica. Credo che questo sia uno dei compiti più difficili per un docente, specialmente se parliamo di materie tecniche e scientifiche. In questo caso, penso che sia ancora più importante trovare il modo di interessare e coinvolgere gli allievi, che già si trovano di fronte a delle difficoltà nell’approccio iniziale. Il modo giusto è, secondo me, sviluppare il buonsenso dell’allievo e la sua capacità di costruire, che attualmente mancano”. Le gratificazioni nell’insegnamento non mancano, “per strada spesso dei vecchi allievi mi fermano per ringraziarmi. In questi casi, capisco quanto sia legato alla mia professione, nonostante le molteplici difficoltà che si incontrano lungo la strada. L’insegnamento mi è sempre piaciuto e ho sempre pensato che fosse questa la mia strada. Il giudizio, poi, non spetta a me”. 
La Facoltà di Architettura – avverte il professore – è molto più difficile di quanto alcuni possano credere, “in quanto è fatta da insegnamenti molto diversi tra loro. C’è bisogno, quindi, di assumere anche atteggiamenti mentali  e modi di operare differenti, non essendo una Facoltà solamente scientifica”.  Ma le soddisfazioni non mancano. Un messaggio agli studenti: “chi si abitua ad affrontare le difficoltà nello studio, saprà farlo anche nella vita”.  
(A.M.P.)
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