Toscano d’origine, russo d’adozione, recentemente approdato a L’Orientale, ma nel giro di qualche mese già uomo di punta nella squadra docenti afferenti alla cattedra di Russistica, il prof. Guido Carpi, prima d’ora docente all’Università di Pisa, si racconta. Ha appena iniziato il corso di Letteratura Russa I per gli studenti iscritti ai Corsi di Laurea Magistrale, diversamente dall’ultimo semestre in cui si era occupato di Lingua Russa III, in attesa di impartire ancora, a partire dal mese di marzo, Letteratura I-II sul triennio. Cosa vuol dire leggere i russi? E cosa differenzia questa civiltà letteraria dalle altre? “È una letteratura che comincia tardi, molto tempo dopo le altre letterature dell’Europa occidentale, e si sviluppa velocemente perché deve colmare in pochi decenni un gap culturale di millenni. Per cui studiamo le opere dall’inizio del Settecento fino ai classici dell’Ottocento, come Dostoevskij, Tolstoj, ÄŒechov, per poi arrivare ad approfondire le esperienze letterarie post rivoluzione bolscevica”. Insegnare letteratura non vuol dire solo elencare una sfilza mnemonica di testi e autori, piuttosto raccontare una narrazione fondata sull’identità e sulla storia nazionale. “Il mio compito è mostrare agli studenti come si sviluppano i processi storici e sociali, perché il retroterra culturale di un popolo aiuta ad averci a che fare anche su altri piani”. E di forte impatto visivo è il disegno per cerchi concentrici con cui il docente illustra la configurazione attuale della Federazione russa, un sistema complesso “a mo’ di carciofo” diverso da quello con cui siamo abituati a confrontarci dal punto di vista dell’organizzazione territoriale. Quest’immagine rende l’idea di una cultura multinazionale e composita, altrettanto riflessa nello specchio letterario, oggetto delle ricerche del docente confluite finora in due ricchissimi volumi sulla Storia della letteratura russa, di cui il secondo, interamente dedicato al Novecento, è stato pubblicato l’anno scorso, seguito poco dopo da un ultimissimo lavoro sulla Rivoluzione d’ottobre, di cui proprio quest’anno ricorre il centenario. Insomma, la passione per la cultura russa, nelle parole del docente, rievoca “una vecchia storia”, che l’intervista di seguito ripercorre sfiorando tappe di un viaggio tra continenti, mondi immaginari ed etnie diverse. “Ho radici tzigane – confessa il prof. Carpi – Il mio trisnonno faceva parte di una tribù che si occupava di allevamento di cavalli e i cui membri furono invitati ad aprire dei ranch nella Bassa padana. Questo mio avo, però, faceva tutt’altro, era violinista da fiera, così come pure il mio bisnonno e mio nonno, che poi ha insegnato anche al Conservatorio. Io e mio padre invece abbiamo completamente perso l’orecchio musicale, però sono molto affezionato sin da bambino a questo ricordo, un po’ sentimentale”.
Cosa l’ha spinta a studiare il russo?
“Era il 1981. Mio padre, allora militante del partito comunista, scoprì che all’Ambasciata stavano per mettere su una delegazione giovanile per andare d’estate in un campo di pionieri sul Mar Nero. Mi divertì moltissimo, non parlammo una parola di russo, ma a quell’età si fa presto a trovare un linguaggio d’intesa. Solo che quando tornai a casa avrei voluto scrivere a uno di quei ragazzini e senza una lingua comune era impossibile. Così, come hobby, cominciai a studiare il russo e col tempo è diventato un lavoro. Ho vissuto in Russia per un po’, una buona metà dei miei amici sono russi. Parte della mia vita si svolge là anche quando fisicamente sono qui. In verità, mi sento un po’ russo anch’io”.
L’impatto con L’Orientale com’è stato?
“È sicuramente un’Università molto diversa dalla mia di origine, quella di Pisa, molto più grande e con Dipartimenti ricchi e pesanti, penso a Medicina o Ingegneria, in cui noi filologi o linguisti eravamo un po’ considerati docenti di serie b. Inoltre, a Pisa c’è la Scuola Normale Superiore, dunque vige una tradizione molto conservatrice e a contare di più sono figure come antichisti, storici, filosofi, italianisti e archeologi. A Napoli ho trovato un ambiente a misura d’uomo, dinamico e accogliente con colleghi alla mano e molto giovani”.
A cosa si deve il boom nelle aule di Russo? Alla prospettiva di un lavoro sicuro?
“Sì, si è sparsa la voce che con il russo si lavora, ed è vero, il problema però è impararlo bene. Oggi gli uomini d’affari russi, se hanno più di 40 anni, non conoscono l’inglese. Hanno perciò bisogno di interpreti. Lo stesso vale per aziende o poli di piccola imprenditoria che esportano manifatturiero in Russia o importano materie prime in Italia. Altre lingue slave hanno questa potenzialità, come ad esempio polacco o ceco. La scelta delle lingue di studio dipende dal tipo di vita che uno vuol fare”.
Cosa cerca di trasmettere durante le sue lezioni?
“Interesse verso una cultura e cosa può offrire in termini di apertura mentale e lavoro. Rispetto a una scuola di lingue noi dobbiamo dare di più, per questo alla lingua si accompagnano tanti insegnamenti ancillari, tra letteratura, storia, geografia, filologia. Se lo studente se la gioca bene e s’impegna, arriva al terzo anno con un buon livello di russo, per intenderci siamo nella fascia B1-B2 dei certificati. Non garantiamo un livello standard, perché dipende dai voti. Tra un 18 e un 30 c’è un abisso. Alla Specialistica, comunque, ho notato un livello veramente buono”.
In che modo si rapporta agli studenti?
“Gli studenti hanno già i loro problemi e cerco, quando posso, di rendere tutto più facile. Se uno abita a Procida, non ha senso che si svegli alle 5 per venire a lezione da me. Credo molto nel futuro di un’Università con corsi a distanza, fruibili da tutti. Anche per la tesi, pretendo dai ragazzi un lavoro semplice ma serio, che si tratta senza troppe difficoltà con una bibliografia di riferimento ben fatta. Non devo insegnare agli studenti come saltare nel cerchio di fuoco, ma ciò che gli serve, e soprattutto abbattere i loro blocchi psicologici creando un’atmosfera in cui dire una sciocchezza non è poi la fine del mondo”.
Cosa significa per lei insegnare letteratura?
“Notizie brute sulle opere ne do poche, nel manuale o nelle enciclopedie c’è già tutto. Dostoevskij ha scritto ‘Delitto e castigo’, lo sanno tutti. Io devo spiegare in che periodo è vissuto quest’autore, a quale tradizione apparteneva, qual era la sua quotidianità, che problema si poneva e quale voleva risolvere scrivendo proprio quel libro. Cerco di creare questa dimensione della profondità temporale, del ‘qui e ora’ culturale, spiegando perché in quel contesto le cose sono andate così e non in un altro modo, che senso avevano all’epoca e perché un libro è diventato un classico”.
In via generale, quali sono le peculiarità del russo?
“Chi ha studiato greco o latino è certamente favorito perché il russo ha le declinazioni. Al terzo anno il peggio è passato, perché si studia la sintassi, con costruzioni non così diverse dalle nostre. Ma all’inizio, tra grammatica e lessico, cioè il totalmente altro, bisogna entrare in un certo meccanismo. Paradossalmente, quando si sale di livello diventa tutto più facile. Parlare una lingua straniera è come muoversi in un negozio di cristalleria, è una questione di pratica”.
Quali strumenti consiglia di adoperare per affinare le proprie conoscenze linguistiche?
“Quando studiavo, gente in giro che studiasse russo non ce n’era, né tanto meno mass media di supporto, c’era la cortina di ferro ed era impossibile comunicare direttamente. Oggi, invece, si può chattare su forum russi, parlare su skype, guardare film in lingua”.
Quali prospettive occupazionali si affacciano a un discente di russo?
“Tantissime. Si può andare a insegnare russo in Russia, fare la guida turistica a Napoli, aprire una pizzeria in Ucraina, diventare professore di letteratura o fare l’interprete. Dipende dalle proprie inclinazioni e dal tessuto economico in cui uno vuole inserirsi”.
Cosa può colpire della vita in Russia?
“Di Mosca, per esempio, colpisce il gigantismo: una metropoli dove solo di residenti ufficiali se ne contano oltre 20 milioni. Una città-mondo, dura a livello di competizione. Una città che ho visto cambiare, dai tempi del comunismo, e in cui esiste un forte gap col resto del Paese. All’inizio può mettere ansia, per via del controllo poliziesco, anche a chi come me è abituato ad andarci da decenni. Per una prima esperienza è preferibile una città più tranquilla, come Tomsk, dove mandiamo i nostri studenti in virtù di convenzioni con due Università siberiane”.
Sabrina Sabatino
Cosa l’ha spinta a studiare il russo?
“Era il 1981. Mio padre, allora militante del partito comunista, scoprì che all’Ambasciata stavano per mettere su una delegazione giovanile per andare d’estate in un campo di pionieri sul Mar Nero. Mi divertì moltissimo, non parlammo una parola di russo, ma a quell’età si fa presto a trovare un linguaggio d’intesa. Solo che quando tornai a casa avrei voluto scrivere a uno di quei ragazzini e senza una lingua comune era impossibile. Così, come hobby, cominciai a studiare il russo e col tempo è diventato un lavoro. Ho vissuto in Russia per un po’, una buona metà dei miei amici sono russi. Parte della mia vita si svolge là anche quando fisicamente sono qui. In verità, mi sento un po’ russo anch’io”.
L’impatto con L’Orientale com’è stato?
“È sicuramente un’Università molto diversa dalla mia di origine, quella di Pisa, molto più grande e con Dipartimenti ricchi e pesanti, penso a Medicina o Ingegneria, in cui noi filologi o linguisti eravamo un po’ considerati docenti di serie b. Inoltre, a Pisa c’è la Scuola Normale Superiore, dunque vige una tradizione molto conservatrice e a contare di più sono figure come antichisti, storici, filosofi, italianisti e archeologi. A Napoli ho trovato un ambiente a misura d’uomo, dinamico e accogliente con colleghi alla mano e molto giovani”.
A cosa si deve il boom nelle aule di Russo? Alla prospettiva di un lavoro sicuro?
“Sì, si è sparsa la voce che con il russo si lavora, ed è vero, il problema però è impararlo bene. Oggi gli uomini d’affari russi, se hanno più di 40 anni, non conoscono l’inglese. Hanno perciò bisogno di interpreti. Lo stesso vale per aziende o poli di piccola imprenditoria che esportano manifatturiero in Russia o importano materie prime in Italia. Altre lingue slave hanno questa potenzialità, come ad esempio polacco o ceco. La scelta delle lingue di studio dipende dal tipo di vita che uno vuol fare”.
Cosa cerca di trasmettere durante le sue lezioni?
“Interesse verso una cultura e cosa può offrire in termini di apertura mentale e lavoro. Rispetto a una scuola di lingue noi dobbiamo dare di più, per questo alla lingua si accompagnano tanti insegnamenti ancillari, tra letteratura, storia, geografia, filologia. Se lo studente se la gioca bene e s’impegna, arriva al terzo anno con un buon livello di russo, per intenderci siamo nella fascia B1-B2 dei certificati. Non garantiamo un livello standard, perché dipende dai voti. Tra un 18 e un 30 c’è un abisso. Alla Specialistica, comunque, ho notato un livello veramente buono”.
In che modo si rapporta agli studenti?
“Gli studenti hanno già i loro problemi e cerco, quando posso, di rendere tutto più facile. Se uno abita a Procida, non ha senso che si svegli alle 5 per venire a lezione da me. Credo molto nel futuro di un’Università con corsi a distanza, fruibili da tutti. Anche per la tesi, pretendo dai ragazzi un lavoro semplice ma serio, che si tratta senza troppe difficoltà con una bibliografia di riferimento ben fatta. Non devo insegnare agli studenti come saltare nel cerchio di fuoco, ma ciò che gli serve, e soprattutto abbattere i loro blocchi psicologici creando un’atmosfera in cui dire una sciocchezza non è poi la fine del mondo”.
Cosa significa per lei insegnare letteratura?
“Notizie brute sulle opere ne do poche, nel manuale o nelle enciclopedie c’è già tutto. Dostoevskij ha scritto ‘Delitto e castigo’, lo sanno tutti. Io devo spiegare in che periodo è vissuto quest’autore, a quale tradizione apparteneva, qual era la sua quotidianità, che problema si poneva e quale voleva risolvere scrivendo proprio quel libro. Cerco di creare questa dimensione della profondità temporale, del ‘qui e ora’ culturale, spiegando perché in quel contesto le cose sono andate così e non in un altro modo, che senso avevano all’epoca e perché un libro è diventato un classico”.
In via generale, quali sono le peculiarità del russo?
“Chi ha studiato greco o latino è certamente favorito perché il russo ha le declinazioni. Al terzo anno il peggio è passato, perché si studia la sintassi, con costruzioni non così diverse dalle nostre. Ma all’inizio, tra grammatica e lessico, cioè il totalmente altro, bisogna entrare in un certo meccanismo. Paradossalmente, quando si sale di livello diventa tutto più facile. Parlare una lingua straniera è come muoversi in un negozio di cristalleria, è una questione di pratica”.
Quali strumenti consiglia di adoperare per affinare le proprie conoscenze linguistiche?
“Quando studiavo, gente in giro che studiasse russo non ce n’era, né tanto meno mass media di supporto, c’era la cortina di ferro ed era impossibile comunicare direttamente. Oggi, invece, si può chattare su forum russi, parlare su skype, guardare film in lingua”.
Quali prospettive occupazionali si affacciano a un discente di russo?
“Tantissime. Si può andare a insegnare russo in Russia, fare la guida turistica a Napoli, aprire una pizzeria in Ucraina, diventare professore di letteratura o fare l’interprete. Dipende dalle proprie inclinazioni e dal tessuto economico in cui uno vuole inserirsi”.
Cosa può colpire della vita in Russia?
“Di Mosca, per esempio, colpisce il gigantismo: una metropoli dove solo di residenti ufficiali se ne contano oltre 20 milioni. Una città-mondo, dura a livello di competizione. Una città che ho visto cambiare, dai tempi del comunismo, e in cui esiste un forte gap col resto del Paese. All’inizio può mettere ansia, per via del controllo poliziesco, anche a chi come me è abituato ad andarci da decenni. Per una prima esperienza è preferibile una città più tranquilla, come Tomsk, dove mandiamo i nostri studenti in virtù di convenzioni con due Università siberiane”.
Sabrina Sabatino