Il terremoto del Matese, una spiegazione scientifica

Per chi l’ha avvertita è stata una scossa terrificante, per gli studiosi, invece, va classificata solo come moderata. Ma ad attirare l’attenzione sul sisma del 29 dicembre, da parte del gruppo di studio del Distar (Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse) che da tempo si occupa dell’area del Matese, non è stata l’intensità quanto il suo ipocentro. I professori Luigi Ferranti, Alessandra Ascione e Stefano Mazzoli già da diversi anni studiano l’area a nord della Campania, e con questa scossa ritengono si sia attivata una zona per così dire ‘silente’. “È possibile si sia attivata una faglia, quella del Lago del Matese, che credevamo inerte dal punto di vista sismologico, benché non lo fosse da quello geologico. Faglia che, già individuata e descritta negli anni scorsi da ricercatori del nostro Dipartimento, va studiata con ancora maggiore attenzione per avere un più chiaro quadro della situazione dell’area”, avvertono i docenti, che hanno anche pubblicato una breve relazione sul sito web del Distar, con una lettura in questo senso dei fenomeni sismici di fine dicembre.
“I terremoti sono generati da movimenti rapidi e improvvisi delle faglie, fratture della roccia che nel lungo tempo creano, attraverso lo spostamento delle masse rocciose, le montagne – spiegano in breve, per i profani – La dorsale appenninica è interessata da diverse faglie, molte delle quali sismologicamente attive. Le faglie generano, quindi, terremoti che possono essere di lieve, moderata o forte entità”. Di scosse di magnitudo inferiore al secondo grado della scala Richter se ne registrano ogni giorno in tutto l’Appennino, ci spiegano i geologi, e non vengono avvertite se non dagli strumenti. “Di terremoti forti ne abbiamo uno ogni 30-40 anni – aggiungono – In un secolo, quindi, almeno tre: chi non ricorda il terremoto in Irpinia dell’80, o quello di Messina di inizio ’900 o Avezzano del 1915? Più frequenti, invece, sono le scosse moderate, quindi di magnitudo tra 4 e 5, come quella ultima del Matese”.
Nella porzione di faglia interessata non si registravano neanche terremoti moderati da quando esiste la rete sismica. “Quella del Matese, interessata da un sistema di faglie attive sia a Nord, Nord est che a Sud, è una zona di terremoti storici – spiegano – avvenuti nel 1349, nel 1688 e l’ultimo nel 1805”. Per la faglia che attraversa il massiccio nella zona centrale, e che rappresenta l’ipocentro del sisma del 29, non sono documentati però terremoti negli ultimi secoli, quindi “possiamo ritenere che questa faglia si sia attivata ora, generando il terremoto”. Parliamo di una porzione di faglia molto piccola, di circa 2 chilometri, che però rappresenta un segnale di riattivazione dell’area. “Va tuttavia sottolineato che le faglie rilevate in superficie, come quella del Lago Matese, rappresentano l’espressione superficiale di sistemi di faglie profonde che non si collegano in maniera semplice e diretta con quelle affioranti. Particolarmente per terremoti di magnitudo lieve o moderata, quali quelli avvenuti al Matese nelle ultime settimane, la propagazione della ‘rottura’ sismica dalla zona ipocentrale non raggiunge infatti la superficie, pur essendo questa raggiunta dalla propagazione delle onde sismiche”.
La cosa importante, avvertono i docenti, è ricordare sempre che siamo in una zona sismologicamente attiva “ed è quindi essenziale attenersi a tutte le normative in materia di prevenzione e arrivare ad un’approfondita conoscenza dell’area”.
Prevenire è essenziale, perché “i terremoti non si possono prevedere, quindi vanno prevenuti i danni. Si tratta di movimenti della Terra che non hanno una schematicità tale da poter essere anticipati. Una faglia può stimolarne un’altra affianco ma non c’è attinenza tra il terremoto del Matese e quello registrato poco dopo nel Cilento, ad esempio”.
All’interno del Distar, quindi, si è riaccesa l’attenzione sulla porzione del Lago Matese, ma sono tanti i gruppi di studio attivi, in quello che è il Dipartimento di Scienze della Terra più grande d’Italia e uno dei pochi rimasti: “Con la recente ristrutturazione degli Atenei italiani, hanno chiuso, o sono stati accorpati, oltre la metà dei Dipartimenti, e il nostro resta l’unico in tutto il Sud Italia”. Per cui è proprio qui a Napoli che si studiano tutti i fenomeni sismici di tutto il Mezzogiorno, ed è qui che si formano i giovani sismologi e geologi, ai quali, in un Paese come il nostro, “una nocciolina schiacciata tra Europa e Africa”, non mancheranno gli spunti di ricerca.
Valentina Orellana
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