Nuova missione in Benin per l’équipe del prof. Enrico Di Salvo

L’Africa, con i suoi problemi e la sua bellezza, non è solo come la si vede in TV, ci sono anche difficoltà a cui non assistiamo quotidianamente e che noi europei non riusciamo neanche ad immaginare. Il prof. Enrico Di Salvo, che insegna Chirurgia Generale alla Facoltà di Medicina della Federico II, racconta l’undicesimo progetto sanitario in Africa Occidentale che lo ha visto protagonista. Una équipe di tredici medici di prim’ordine l’ha accompagnato nel prestare gratuitamente soccorso alle popolazioni in difficoltà. “Stiamo preparando un progetto di chirurgia immenso, enorme. Oltre all’Ospedale storico camilliano La Croix nel sud del Benin, e quello francescano di Zagnanado, dove opera Suor Julia Aguiar (missionaria francescana che nel 2009 è stata insignita di laurea honoris causa dalla Federico II) un nuovo Centro Sanitario nascerà nel Nord dello Stato, precisamente nella città di Djougou”, spiega il docente. 
La missione, durata tre settimane, con partenza il 28 aprile e ritorno il 20 maggio, ha visto un’attività febbrile dei medici coinvolti. Tra questi, quattro chirurghi (i dottori Umberto Bracale, Maurizio Padula, Maria Calandra), due oculisti (il dott. Paolo Lepre e l’assistente Flaviano De Luca), una radiologa, un internista, due anestesisti, una veterinaria, uno specializzando (il dott. Mario Aloi) e un coordinatore generale.
“Abbiamo avuto settanta interventi di chirurgia medio-alta: mostruosità del collo, come gozzi tiroidei, sfaceli dovuti al parto, traumi, non stavamo un attimo fermi”, commenta il professore. La sua soddisfazione riguardo l’esito del progetto deriva anche dall’inaugurazione di una scuola e un pozzo, resa possibile grazie ai fondi dei benefattori. “Nel tempo siamo riusciti a creare un coinvolgimento nel sociale, grazie al contributo dell’Onlus Mosi Cicala e dell’Associazione Cotugno Africa Onlus, nata da un’idea del dott. Vincenzo Casalino, ex chirurgo del Cotugno”. Un’importante conquista per le popolazioni del Benin, infatti è stato anche deliberato lo stanziamento di una cifra corrispondente al salario di un medico per tre anni. “Le popolazioni ci accolgono molto bene ogni anno, perché sanno che andiamo lì gratis et amore dei. Una volta arrivato hai la sensazione di dover fare sempre di più per loro”. Il docente racconta, tra i tanti episodi vissuti in Africa, uno che l’ha colpito particolarmente. “Ho operato un bambino di nove giorni per una peritonite e ce l’ha fatta. Il papà gli ha dato il mio nome e ogni anno lo incontro. Oggi ha undici anni. È una bellissima sensazione vederlo giocare”. Un’esperienza molto formativa anche per gli specializzandi, che ogni anno vengono coinvolti nei progetti. Quest’anno è il dott. Mario Aloi, al quarto anno di Specializzazione, ad aver vissuto l’esperienza e a raccontarla. “Sono partito come anestesista. Ciò che mi ha colpito maggiormente è la grande povertà del luogo, inimmaginabile per noi. Ho visto cose che qui in Europa non si sognano neanche e che spesso la televisione non racconta”. Singolare, infatti, il modo di curarsi della popolazione. “Nel Benin ci sono gli stregoni, come in quasi ogni villaggio africano. Molti preferiscono rivolgersi a loro per farsi curare, prima di venire da noi. Ma gli stregoni spesso non hanno neanche i rudimenti di medicina, quindi non possono guarire. Purtroppo questa pratica fa sì che passi troppo tempo dal momento della comparsa del problema, e quando ci si decide a venire da noi medici è, in alcuni casi, troppo tardi”. Il dott. Aloi parla di un’operazione che gli ha provocato sconforto. “Abbiamo dovuto amputare dal ginocchio in giù un bambino di dieci anni, per un morso di serpente non velenoso. All’inizio non era così grave, il problema è che, passato del tempo, si era infettato”.
Gli ospedali sono pochi e si trovano a grande distanza l’uno dall’altro. E poi c’è una questione economica di fondo. “Il sistema sanitario è simile a quello americano, basato sulle assicurazioni, senza le quali non viene garantita assistenza medica, quindi bisognerebbe pagare tutte le prestazioni. Ma qui quasi nessuno è assicurato, perché c’è troppa povertà, ciò causa un ulteriore ritardo nell’accesso alle cure e la popolazione si basa soprattutto sugli aiuti umanitari”. Aloi afferma che volentieri rifarebbe quest’esperienza: “Sono tornato a casa più consapevole, ora so che ci sono persone che si trovano in condizioni totalmente diverse dalle nostre. L’ho visto con i miei occhi e diventa difficile far finta di niente”. 
Allegra Taglialatela
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