Certamente è una meta insolita anche per chi viaggia per svago. È catalogabile tra le destinazioni esotiche accanto a Bora Bora e Bangkok. Ma Liliana Iannucci, ricercatrice al Distabif, ha scelto la città di Singapore per il suo Dottorato in Fisiologia. “Il nome significa città dei leoni, anche se non so il perché,
e dei divieti, e questi li conosco anche perché trasgredirne alcuni vuol dire incorrere nella pena di morte, ancora in vigore in molti Stati asiatici, come ad esempio per il traffico di droga”. Per garantire ordine e pulizia della città sono vietate le gomme da masticare, ne sono bandite importazione e vendita, non si possono buttare cicche di sigaretta per strada e non si può mangiare sui mezzi pubblici. Una città supertecnologica, dalle installazioni scenografiche ed ecosostenibili, come gli alberi artificiali che sono muniti di pannelli fotovoltaici che durante la giornata incamerano energia solare che poi di sera viene sprigionata sotto forma di illuminazione. Ma come sopravvivere in una città così lontana dalla propria? “Ho sentito alcune ragazze dire che a malapena riescono ad orientarsi nella loro città, figurarsi in una località straniera. Non c’è da preoccuparsi perché i servizi di trasporto funzionano benissimo e ci si sposta con estrema facilità. Mi è capitato di perdermi quasi all’aeroporto di Roma e non a quello di Singapore”. La stessa cosa vale per la comunicazione. “In un ambiente internazionale sono abituati ad accogliere persone da tutto il mondo ed esiste una sorta di elasticità per quanto riguarda la comunicazione. È ovvio che qualcosa di inglese bisogna conoscerlo ma se non si ha una certa padronanza della lingua ci si aiuta e si riesce a comunicare in qualche modo alla fine”. Ma gli ostacoli si incontrano soprattutto a tavola. “La prima difficoltà che ho incontrato è stata il cibo, gli asiatici adorano le pietanze molto speziate. Questo apre certamente il palato a nuovi sapori ed accostamenti che non avrei mai fatto – ricorda Liliana – per me è stato difficile abituarmi perché non vado nemmeno dal giapponese. Sono praticamente partita da zero ma devo dire la verità che alcuni piatti sono risultati simpatici”. Liliana,
beneventana di Sant’Agata de’ Goti, ha vissuto 15 mesi a Singapore e ha fatto parte del team di ricerca della Duke-Nus Medical School, una struttura piuttosto nuova, nata circa 15 anni fa da un gemellaggio tra la Duke americana e la Nus, l’Università di Singapore, che è stata anche casa per la dottoranda. Il progetto di ricerca ha riguardato inizialmente gli ormoni della tiroide (T2-T3), oggetto di studi del team casertano di cui Liliana fa parte, e i loro effetti sul metabolismo lipidico del fegato durante una breve dieta HFD, ovvero ricca di grassi. “Con approcci un po’ diversi abbiamo potuto confermare i nostri dati ma ne abbiamo ottenuti anche altri come il fatto che gli ormoni tiroidei riescono a regolare l’autofagia, la lipolisi epatica oppure a prevenire addirittura l’accumulo di alcune specie lipotossiche”. “Essendo stata così tanto tempo ho avuto modo di affacciarmi anche ad altre cose – continua il suo racconto – Ho partecipato ad esempio ad altri progetti come quello sugli acidi grassi a catena corta nel fegato e avuto altre collaborazioni sulle disfunzioni metaboliche di cui i ricercatori dell’università si interessavano principalmente. È stato molto produttivo tanto che questo studio ci ha portato alla pubblicazione di tre articoli scientifici di cui vado molto fiera”.
e dei divieti, e questi li conosco anche perché trasgredirne alcuni vuol dire incorrere nella pena di morte, ancora in vigore in molti Stati asiatici, come ad esempio per il traffico di droga”. Per garantire ordine e pulizia della città sono vietate le gomme da masticare, ne sono bandite importazione e vendita, non si possono buttare cicche di sigaretta per strada e non si può mangiare sui mezzi pubblici. Una città supertecnologica, dalle installazioni scenografiche ed ecosostenibili, come gli alberi artificiali che sono muniti di pannelli fotovoltaici che durante la giornata incamerano energia solare che poi di sera viene sprigionata sotto forma di illuminazione. Ma come sopravvivere in una città così lontana dalla propria? “Ho sentito alcune ragazze dire che a malapena riescono ad orientarsi nella loro città, figurarsi in una località straniera. Non c’è da preoccuparsi perché i servizi di trasporto funzionano benissimo e ci si sposta con estrema facilità. Mi è capitato di perdermi quasi all’aeroporto di Roma e non a quello di Singapore”. La stessa cosa vale per la comunicazione. “In un ambiente internazionale sono abituati ad accogliere persone da tutto il mondo ed esiste una sorta di elasticità per quanto riguarda la comunicazione. È ovvio che qualcosa di inglese bisogna conoscerlo ma se non si ha una certa padronanza della lingua ci si aiuta e si riesce a comunicare in qualche modo alla fine”. Ma gli ostacoli si incontrano soprattutto a tavola. “La prima difficoltà che ho incontrato è stata il cibo, gli asiatici adorano le pietanze molto speziate. Questo apre certamente il palato a nuovi sapori ed accostamenti che non avrei mai fatto – ricorda Liliana – per me è stato difficile abituarmi perché non vado nemmeno dal giapponese. Sono praticamente partita da zero ma devo dire la verità che alcuni piatti sono risultati simpatici”. Liliana,
beneventana di Sant’Agata de’ Goti, ha vissuto 15 mesi a Singapore e ha fatto parte del team di ricerca della Duke-Nus Medical School, una struttura piuttosto nuova, nata circa 15 anni fa da un gemellaggio tra la Duke americana e la Nus, l’Università di Singapore, che è stata anche casa per la dottoranda. Il progetto di ricerca ha riguardato inizialmente gli ormoni della tiroide (T2-T3), oggetto di studi del team casertano di cui Liliana fa parte, e i loro effetti sul metabolismo lipidico del fegato durante una breve dieta HFD, ovvero ricca di grassi. “Con approcci un po’ diversi abbiamo potuto confermare i nostri dati ma ne abbiamo ottenuti anche altri come il fatto che gli ormoni tiroidei riescono a regolare l’autofagia, la lipolisi epatica oppure a prevenire addirittura l’accumulo di alcune specie lipotossiche”. “Essendo stata così tanto tempo ho avuto modo di affacciarmi anche ad altre cose – continua il suo racconto – Ho partecipato ad esempio ad altri progetti come quello sugli acidi grassi a catena corta nel fegato e avuto altre collaborazioni sulle disfunzioni metaboliche di cui i ricercatori dell’università si interessavano principalmente. È stato molto produttivo tanto che questo studio ci ha portato alla pubblicazione di tre articoli scientifici di cui vado molto fiera”.