Colletti bianchi in affari con la criminalità organizzata o, addirittura, essi stessi parte di sodalizi criminali. Sempre più spesso le cronache raccontano l’altra faccia della mafia, della camorra e della n’drangheta. Organizzazioni che sono ormai capaci di infiltrare l’economia costituendo società od impadronendosi di aziende originariamente ‘pulite’. È un meccanismo, il loro, utile a riciclare i proventi dei traffici illegali (stupefacenti, armi, usura, prostituzione, solo per citarne alcuni) e per accumulare ulteriori ricchezze. È anche un sistema per creare consenso nei territori dove operano, però, perché le imprese di camorra, mafia e n’drangheta offrono lavoro ed assorbono manodopera. In tempi di crisi, complice la capacità che hanno di falsare le regole del mercato e della concorrenza, possono addirittura proporsi come una zattera di salvataggio nei territori dove il tasso di disoccupazione è più alto. Ma quante sono le aziende malavitose in Italia e quanto pesano effettivamente nel sistema economico? Ancora: dove sono più presenti? Quesiti ai quali hanno provato a rispondere, almeno in parte, tre professori universitari. Due dell’Ateneo Vanvitelli: Maria Rosaria Alfano e Claudia Cantabene. Il terzo dell’Università di Calabria: Damiano Bruno Silipo. Insieme hanno condotto uno studio sulla zona grigia e sulla strategia delle organizzazioni criminali tra legalità ed illegalità. I risultati dell’indagine sono stati presentati a fine ottobre nel corso di un convegno che si è svolto al Dipartimento di Economia di Capua ed al quale ha preso parte anche Antonello Ardituro, il giudice che per dieci anni ha lavorato nella Direzione distrettuale antimafia ed oggi è consigliere del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati. Un incontro il 6 novembre anche con gli studenti.
I settori più permeabili
ai capitali sporchi
ai capitali sporchi
“Abbiamo svolto – racconta la prof.ssa Cantabene, che ha 45 anni, si è laureata in Economia e Commercio alla Federico II ed insegna alla Vanvitelli Microeconomia – un’analisi empirica sul peso delle imprese mafiose nell’economia legale. Abbiamo impiegato i dati dell’Agenzia Nazionale per i beni confiscati e sequestrati per elaborare l’indice di penetrazione nella economia legale dei capitali mafiosi”. Sono emersi dati interessanti e, in parte, sorprendenti. “In questa prima fase ci siamo limitati a considerare – premette la docente – le imprese destinate. Quelle, cioè, per le quali c’è stata già anche l’assegnazione definitiva da parte dell’Agenzia a enti, associazioni o cooperative. Il periodo preso in considerazione è stato quello dal 2004 al 2016. Il primo dato che emerge è che dietro la Sicilia – oltre 200 delle imprese destinate sono in quel territorio – e la Campania – tra 130 e 300 – ci sono anche regioni che non ci si aspetterebbe di trovare. Penso in particolare al Lazio, che è terzo nella graduatoria – tra 85 e 130 imprese malavitose – ed alla Lombardia, che si colloca nell’intervallo 27 – 85 e sta insieme alla Puglia ed alla Calabria. I numeri, insomma, confermano quello che si poteva intuire semplicemente leggendo le cronache di alcune inchieste importanti sulla criminalità organizzata condotte dalle Procure negli ultimi dieci anni: le imprese legate alla criminalità organizzata si sono diffuse anche nel Centro nord”. Ci sono isole felici o, comunque, regioni nelle quali la pervasività dell’economia illegale in quella legale è molto meno forte. Al Nord la Liguria, il Piemonte, il Friuli Venezia Giulia, il Trentino Alto Adige, la Valle d’Aosta, il Veneto. Al Centro il Molise, le Marche, l’Abruzzo. Nel Meridione parrebbe immune da problemi di imprenditorialità malavitosa la Basilicata. Stesso discorso per la Sardegna. “Sono diverse – prosegue la docente – le strategie che mettono in campo le imprese di mafia, camorra e n’drangheta per entrare nell’economia legale. La violenza si utilizza soprattutto al Nord. Al Sud la modalità più utilizzata è quella di entrare nelle istituzioni e non è casuale che nel Mezzogiorno ci sia anche la maggior parte dei Comuni sciolti per mafia nel periodo considerato dalla nostra indagine. Se inquini la Pubblica amministrazione, piazzi i tuoi uomini negli uffici tecnici, laddove si decidono gli appalti o si esaminano le pratiche edilizie, non hai neppure più necessità di importi con la minaccia o la violenza”. I settori più permeabili ai capitali sporchi? “Costruzioni, movimento terra e molto terziario. Ristoranti, bar, hotel, se guardiamo ai dati dell’Agenzia per i beni confiscati ai quali abbiamo fatto riferimento per la nostra indagine, sono tutte attività estremamente appetibili per la malavita organizzata che punta a farsi imprenditrice”. L’indagine condotta dai tre docenti è durata circa un anno e mezzo. “Questa è una prima versione – dice la prof.ssa Cantabene – e in una seconda fase vorremmo esplorare anche i dati delle imprese confiscate che però non sono state ancora assegnate. Insomma, ci piacerebbe allargare l’oggetto dell’indagine. È un argomento di grande attualità ed interesse. Adesso vorremmo esplorare anche i dati delle imprese confiscate. Poi l’idea è affrontare anche il discorso di quelle che sono le caratteristiche comuni alle imprese mafiose per verificare se ci sono elementi sintomatici, per esempio indicatori di bilancio, che possano far sospettare che una certa impresa è legata alla criminalità organizzata”. Conclude: “Noi siamo mossi da curiosità scientifica innanzitutto, perché siamo docenti universitari e svolgiamo ricerca. Ciò detto, se si riesce anche a fornire elementi che possano risultare utili e di sostegno a chi concretamente è impegnato nel contrasto alla penetrazione dei capitali mafiosi, si raggiunge un risultato certamente importante ed auspicabile”.
Fabrizio Geremicca
Fabrizio Geremicca