Erri De Luca a Scritture in transito

È Erri De Luca il protagonista dell’ultimo incontro del ciclo di seminari Scritture in transito, tenutosi lo scorso 24 aprile nell’Aula Piovani. Il celebre scrittore napoletano torna alla Federico II per parlare de L’età sperimentale, il suo ultimo romanzo, nato in collaborazione con la stilista ed ex modella francese Inès de la Fressange e accompagnato da un cortometraggio firmato da Marco Zingaretti (disponibile su RaiPlay). Un libro che, come suggerisce il titolo, esplora la terza età non come declino, ma come una stagione nuova: un tempo di esperimenti, rallentamenti e sorprese, in cui corpo e spirito trovano nuove forme di espressione. “Un ritmo inedito, forse l’inizio di uno stile tardo”, come osserva la prof.ssa Silvia Acocella, coordinatrice del seminario.

L’edizione di quest’anno si è arricchita dell’elemento cinematografico grazie al progetto Imagine Movement, che ha affiancato alla lettura del romanzo anche la visione del corto ispirato al testo: “Un cammino doppio: da un lato la pagina scritta, dall’altro la sua resa filmica”. Cuore di questo epilogo, una suggestione che si fa chiave di lettura: la scrittura come corpo in transito, rete gettata nel fondo del tempo e pronta ad essere issata dallo sguardo dei lettori. Dialogano con l’autore, due gruppi di studenti coordinati da Achille Campanile e Luca Florio, curatori rispettivamente dell’analisi del libro e del cortometraggio. La conversazione si dipana lungo un sentiero che si rivela solo attraverso il racconto: un’età fatta di “vastità sconosciute alle età precedenti, di molta aria e di primizie”.

Nel cammino in ascesa di questa “età da cima del bosco” si sprigiona una spinta profonda al ringraziamento, un guizzo finale che attraversa l’intera narrazione. “Un tocco di grazia chiude questo nostro cammino”, sentenzia Acocella, sottolineando come la gratitudine sia da sempre il filo conduttore del percorso: “è il nostro punto di partenza, ma anche il punto di arrivo”.

Il dibattito con gli studenti

Il libro alterna una prima parte narrativa, vicina al linguaggio del cortometraggio, e una seconda in forma epistolare. Ho avuto modo di vedere prima il corto, poi letto il libro. Come dialogano tra loro questi due linguaggi? “Il cortometraggio è stato una suggestione iniziale, ma la scrittura ha un altro tempo e un altro passo. Nel libro posso soffermarmi, scavare. Le parole hanno un loro peso, una precisione che l’immagine non trattiene. Scrivere è come dare una regia interiore, una visione che non ha bisogno di schermo”.

Scrive che ‘l’età sperimentale è di chi non ha potuto raggiungerla’. Perché parla di ‘età’ e non semplicemente di ‘fase’? “Perché è lunga, richiede tempo e distanza. È un periodo complesso, non un semplice momento. Per sperimentare davvero serve spazio, e forse anche un rallentamento”.
La prof.ssa Acocella ha detto che questo libro potrebbe essere un preludio a uno ‘stile tardo’. Lei sente di aver cambiato modo di scrivere? “Non ho mai avuto un metodo fisso. Ogni libro nasce da un’urgenza. La sperimentazione non è nello stile, ma nei temi. Ho scritto cose che prima nemmeno sapevo pensare.

Il carteggio con Inessa ne è un esempio. Questa è, per me, l’età sperimentale”.
Parla spesso di distanza. È una perdita o una forma di chiarezza? E, inoltre, ho notato che anche il silenzio è molto presente nel libro. È una scelta voluta? “Per la prima domanda direi: entrambe. La distanza toglie l’illusione del possesso. Solo quando una cosa è lontana, la si vede per ciò che è. Le cose si capiscono solo quando si smette di stringerle. Per quanto riguarda il silenzio, assolutamente sì. Il silenzio è una forma di rispetto per ciò che non so. Oggi so meno di un tempo, ma ascolto meglio”.

Il libro alterna una prima parte narrativa, vicina al linguaggio del cortometraggio, e una seconda in forma epistolare. Ho avuto modo di vedere prima il corto, poi letto il libro. Come dialogano tra loro questi due linguaggi? “Il cortometraggio è stato una suggestione iniziale, ma la scrittura ha un altro tempo e un altro passo. Nel libro posso soffermarmi, scavare. Le parole hanno un loro peso, una precisione che l’immagine non trattiene. Scrivere è come dare una regia interiore, una visione che non ha bisogno di schermo”.

Scrive che ‘l’età sperimentale è di chi non ha potuto raggiungerla’. Perché parla di ‘età’ e non semplicemente di ‘fase’? “Perché è lunga, richiede tempo e distanza. È un periodo complesso, non un semplice momento. Per sperimentare davvero serve spazio, e forse anche un rallentamento”.
La prof.ssa Acocella ha detto che questo libro potrebbe essere un preludio a uno ‘stile tardo’. Lei sente di aver cambiato modo di scrivere? “Non ho mai avuto un metodo fisso. Ogni libro nasce da un’urgenza. La sperimentazione non è nello stile, ma nei temi. Ho scritto cose che prima nemmeno sapevo pensare.

Il carteggio con Inessa ne è un esempio. Questa è, per me, l’età sperimentale”.
Parla spesso di distanza. È una perdita o una forma di chiarezza? E, inoltre, ho notato che anche il silenzio è molto presente nel libro. È una scelta voluta? “Per la prima domanda direi: entrambe. La distanza toglie l’illusione del possesso. Solo quando una cosa è lontana, la si vede per ciò che è. Le cose si capiscono solo quando si smette di stringerle. Per quanto riguarda il silenzio, assolutamente sì. Il silenzio è una forma di rispetto per ciò che non so. Oggi so meno di un tempo, ma ascolto meglio”.

Il gioco

Come racconta, nella sua infanzia il gioco aveva un ruolo importante. Ha ancora oggi un posto nella sua scrittura? E, secondo lei, perché questo aspetto sembra mancare soprattutto tra i ragazzi della mia età? “Non so dire cosa gli altri non riescano a trovare. Posso solo raccontare quello che vale per me: il gioco è sempre stato un’attività molto seria. I bambini, quando giocano, si impegnano completamente: ci mettono attenzione, energia, costruiscono il loro rapporto con gli altri. Non giocano mai per finta.

Anche oggi il gioco è centrale nella mia vita: non è un passatempo vuoto, ma un modo per non sprecare il tempo. Anche la lettura è un gioco, un gioco che pratico con me stesso, forse oggi più di quanto non facessi in passato. Il mio obiettivo è arrivare alla fine della giornata stanco, non mentalmente, ma fisicamente. Vuol dire che ho usato fino in fondo il tempo a disposizione. Anche l’allenamento fisico, le scalate che faccio, fanno parte del mio modo di giocare. Questo modo di vivere appartiene alla mia ‘età sperimentale’: ogni giorno mi ripeto che ho il diritto di viverlo come se fosse l’ultimo, anche se preferisco considerarlo sempre il penultimo”.

In un suo testo scrive: ‘Invecchiare è imparare da un albero maestro di cui mi sento un ramo’. Scrivere è stata una forma di pace rispetto all’infanzia? E lei si sente ancora figlio? “Non essendo mai diventato padre, non ho mai smesso di essere figlio. Questo mi impedisce di creare una vera distanza generazionale. Non ho mai assunto il ruolo del padre, nessuno me l’ha chiesto. Così mi sento coetaneo di tutti: neonati e centenari. I giovani oggi vivono un rapporto difficile con il futuro. Lo percepiscono come una valanga imminente, ma cercano di scioglierla, goccia a goccia. Il verbo più faticoso per loro è ‘riparare’: vogliono dissociarsi dal passato e costruire qualcosa di nuovo. Per questo li considero profetici, anche se – come i profeti – spesso non vengono ascoltati”.

Quando è che un corpo ‘vede la luce’? “Quelle parole non sono una teoria, ma un’esperienza. ‘Vedere la luce’ è una percezione profonda, non un giudizio. È una possibilità che si apre, spesso nelle fasi terminali della vita. Io non so se oggi vedo più luce, ma di certo vedo più chiaro. È come se fossi passato dalla vista alla visione. Non faccio pronostici, ma scrivo il futuro come lo vedo, per me stesso”.

Nel suo ‘Elogio dei piedi’ emerge una forte gratitudine verso il corpo. Quanto conta il corpo nel processo formativo? “Il corpo è tutto. Come dice un proverbio russo: ‘I piedi sono le zampe del lupo: è grazie a loro che può mangiare’. Io imparo con il corpo. La percezione nasce lì e solo dopo arriva alla testa, che è il capolinea, utile per trovare le parole. A scuola, la filosofia mi sembrava un’attività lontana: costruire sistemi per spiegare il mondo mi pareva poco comunicabile. La mia scrittura è fisica, nasce da un’esigenza orale prima che scritta. Le frasi sono brevi perché ho bisogno di respirare tra una e l’altra. Scrivo con il corpo, come se parlassi”.

La sua scrittura sembra legata ad un’esperienza materiale, quasi sensuale. In un mondo sempre più virtuale, che ruolo ha la narrazione? È un modo per accedere ad altri mondi o una necessità vitale? “Scrivo come lettore. La mia competenza viene più dalla lettura che dalla scrittura. I racconti, spesso brevi, mi offrono una precisione improvvisa sulla realtà: sono come squarci. Come dice Marina Cvetaeva: ‘Solo per entusiasmo l’essere umano crea il mondo’. Ed è in quei momenti che le cose si mettono a fuoco. Non so dove mi porterà una storia quando inizio a scriverla: me la racconto mentre la scrivo. Scrivo a mano, su un quaderno. La prima stesura è per me. La seconda per un lettore che ancora non conosco. La terza è quella definitiva: quando capisco che non posso raccontarla meglio, la lascio andare”.

In una parte del libro racconta il legame con un giocattolo e riflette sull’amicizia come forma d’amore più forte del tempo e della morte. “Ho un’idea di amicizia fondata sulla realtà. L’amore romantico tollera anche l’illusione, l’amicizia no. Se l’amico viene meno alla realtà, il legame si spezza. È un sentimento più severo, ma anche più autentico”.

L’età sperimentale si può definire un’opera di ‘seconda infanzia’? “Non credo. Piuttosto, è un periodo di continua scoperta, dove si sperimentano nuovi modi di percepire e riflettere sul mondo, ma non in modo fisico, come accade nell’infanzia. Penso che la vita non segua un progresso lineare, ma piuttosto un alternarsi di momenti di crescita e regressione, nei quali acquisisco nuove prospettive. A 75 anni, sento che la mia arte e la mia vita finalmente coincidono. Le regressioni, in particolare, sono per me fondamentali per rinnovare la capacità di esprimermi”.
Giovanna Forino
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Ateneapoli – n. 8 – 2025 – Pagina 20

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