Il racconto di Filomena, sfigurata con l’acido dall’ex marito

Il racconto di Filomena, sfigurata con l’acido dall’ex marito

Trent’anni di sofferenze e poi il coraggio di dire basta. “Adesso finalmente sono libera. L’ho pagata cara questa libertà, ma oggi è la cosa più preziosa che possiedo”, dice la donna alla platea che ha affollato l’Aula Franciosi di Giurisprudenza

È il 21 aprile e l’aula Franciosi di Palazzo Melzi è tutta un vociare. Tutti i posti sono occupati. Ci sono studenti dello stage di Diritto penitenziario, cittadini, genitori che hanno accompagnato i figli e anche alcuni detenuti della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, tutti qui per lo stesso motivo. Poi, all’improvviso, una donna minuta varca la soglia dell’aula e piomba su tutti un silenzio grave.

È Filomena Lamberti, prima donna italiana sfigurata con l’acido dall’ex marito, venuta qui per raccontare la sua storia. L’incontro si apre con i saluti del Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Raffaele Picaro che omaggia l’ospite con parole calde: “La mia personale vicinanza, e di tutto il Dipartimento, a Filomena. Questi incontri nascono con l’intento di coniugare l’insegnamento teorico con storie di vita vissuta, nella speranza che voi, giuristi di domani, impariate ad accostarvi a questa professione con empatia e senso di umanità”. Una folta ghiera di ospiti ha prestato il suo contributo nel corso della giornata: il prof. Mariano Menna, Ordinario di Diritto processuale penale; Tiziana Barrella, criminologa e profiler dell’Osservatorio Giuridico Italiano; lo psicologo Adelchi Berlucchi; Rosanna Carpentieri, avvocata del centro Antiviolenza ‘Linearosa’ dell’associazione Spaziodonna; il Sostituto Procuratore della Repubblica del tribunale di Santa Maria Capua Vetere Gionata Fiore.

Ha coordinato la tavola rotonda la prof.ssa Mena Minafra, Ricercatrice di Diritto processuale penale dell’Ateneo, conosciuta per le iniziative a tutela della dignità delle persone detenute. “Vedete questa macchia rossa? – ha domandato a un tratto Minafra esibendo l’immagine di un libro – Questa è Filomena Lamberti il giorno del suo ricovero, dopo quello che le aveva fatto il marito”. Una storia drammatica quella di Filomena, che per trent’anni ha convissuto con un uomo violento, un padre-padrone che le ha reso la vita impossibile. “Il mio grande errore è stato quello di sopportare trent’anni – dice Filomena con compostezza – Come molte donne, anch’io ho confuso il possesso con l’amore. Pensavo che mi volesse bene, che facesse quel che faceva perché teneva a me, ma ogni volta che tolleravo, ogni volta che gli consentivo di vietarmi qualcos’altro, stavo in realtà costruendo la mia gabbia.

Tutto inizia prima del matrimonio: “All’epocaerano gli anni Settanta – andavano di moda le minigonne, ma lui mi vietava di indossarle. Il trucco? Neanche a parlarne. Un caffè con un’amica? Non potevo. Tutto quello che avveniva in sua assenza o che per lui poteva costituire una minaccia mi era precluso. E poi c’erano le botte, che arrivavano sempre e per qualunque motivo”. Poi la gravidanza e il matrimonio: “Le cose da allora sono peggiorate, perché adesso mi possedeva, non potevo più sottrarmi”. Filomena non può contare neanche sull’aiuto della famiglia d’origine: “Mio padre, che aveva il porto d’armi, un giorno minacciò il mio ex marito perché mi aveva vista tornare a casa con dei lividi sul volto. Purtroppo, dopo tre mesi se ne andò per un brutto male. Mia madre non aveva mai approvato la mia relazione e quando andai a chiederle aiuto mi rispose che ormai l’avevo sposato e dovevo vedermela da sola”.

Trascorrono così trent’anni. Un giorno, dopo l’ennesimo litigio, i figli dicono basta: “Non potete più andare avanti così, dovete prendere una decisione!”. Filomena sente qualcosa dentro di sé: “Fu come se quelle parole mi avessero risvegliato da un profondo stato di trance. Finalmente trovai il coraggio di dirgli che volevo la separazione”. Poi però il figlio comunica che diventerà padre, manifestando l’intenzione di sposare la fidanzata: “Avevo aspettato tanto, decisi che potevo aspettare ancora un po’ per la separazione, almeno il tempo di far sistemare mio figlio”.

Dopo il matrimonio – era il 28 maggio 2012 – il marito le si avvicina per chiederle se avesse ancora l’intenzione di separarsi. La risposta di Filomena è affermativa. Non ha più intenzione di sopportare. Lui sembra accondiscendere: “Era sorprendentemente calmo, cominciò addirittura a fare l’inventario delle cose da portare via. Nulla mi faceva presagire quello che sarebbe successo di lì a poche ore”. Sono le quattro del mattino, infatti, quando Filomena viene colta nel sonno dal marito, che la fa girare su un fianco e la sveglia: “Le ultime parole che ricordo sono queste: ‘Tiè, guarda che ti do’”, dopodiché il dramma. L’uomo, colui che le aveva giurato amore eterno, le versa addosso un intero flacone di acido solforico.

Gli elementi che confermano la premeditazione sono tanti, infatti l’uomo aveva rinchiuso il cane – che una volta l’aveva aggredito mentre cercava di picchiare Filomena – e fatto sparire le chiavi della macchina. Poi il trasporto al Centro Grandi Ustionati del Cardarelli di Napoli, dove Filomena arriva esanime e in condizioni critiche – resterà incosciente per oltre un mese. Il processo si svolge in fretta e furia senza che nessuno abbia visto le condizioni della donna, e si conclude con un patteggiamento a 18 mesi. “Ho subito una duplice violenza, da parte di mio marito e da parte dello Stato”, dice oggi Filomena con amarezza. Per lo stesso reato “oggi è prevista una pena minima di otto anni di reclusione, ma non è mai inferiore ai dieci”, afferma il Procuratore Fiore. “Possiamo dire che, fortunatamente, oggi la giustizia si muove velocemente in questi casi – prosegue – e che le conseguenze per il colpevole sono immediate”.

I quattro stadi della violenza domestica

Si passa poi a un identikit del potenziale aggressore: come si capisce se la persona di cui si è innamorati possa diventare un carnefice? Non è raro che si confonda il possesso con l’amore, “è una cosa che succede a moltissime persone vittime di violenza”, dice lo psicologo Berlucchi. “Se ci si accorge di non incastrarsi alla perfezione, allora probabilmente non è amore – continua – bensì una situazione destinata a deteriorarsi”.

Poi elenca quattro stadi della violenza domestica. Ossia, “l’intimidazione: il carnefice fa di tutto perché la vittima versi in un costante stato di ansia e terrore e perché si senta colpevole; l’isolamento: il carnefice isola la vittima, perché ogni contatto esterno potrebbe rappresentare un’occasione per chiedere aiuto; la svalutazione: il carnefice fa in modo che la vittima sia sfiduciata, che si reputi inferiore, incapace; la segregazione: la vittima è ormai alla completa mercé del proprio carnefice, lo giustifica, lo asseconda, non riesce ad opporglisi. È quella che chiamiamo ‘sindrome di Stoccolma’”.

Sebbene non sia sempre così, la statistica rivela che l’uomo possessivo è in genere un manipolatore, il quale presenta connotati ben identificabili, come spiega la profiler Barrella: “Il manipolatore mette in atto una serie di strategie allo scopo di annichilire la sua vittima: aggressività alternata a tenerezza, tendenza al vittimismo o a scaricare le proprie colpe sul prossimo, dipendenza economica del partner, isolamento, ricatti e minacce, prevaricazione e limitazioni sempre più severe”.
Mentre gli esperti parlano, Filomena annuisce. “Mi dispiace che tu debba rivivere quei momenti – dice la prof.ssa Minafra immagino che per te sia ogni volta una ferita che si riapre”. Ma la donna scuote fermamente la testa: “Assolutamente no! Ogni cicatrice sul mio volto è uno strumento per far sì che quello che è accaduto a me non accada ad altre donne”.

Una dignità e un coraggio commoventi, quelli di Filomena, che con la sua storia ha contribuito a salvare molte donne vittime di violenza – una delle quali è qui oggi. “Le donne che subiscono abusi, con o senza figli, possono contare sul sostegno di numerose associazioni, tra cui la nostra”, dice Carpentieri di Spaziodonna – La linea rosa è attiva 24 ore e mette in contatto con le associazioni più vicine alla vittima, che può trovare ospitalità grazie alla nostra rete di rifugi. Spesso le donne non denunciano perché hanno paura che gli assistenti sociali portino via i loro figli, ma è un timore assolutamente infondato”.

Poi Filomena riceve un mazzo di fiori da Giuseppe, detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere, prima di ascoltare la commovente lettera di una ragazza. “Nei tuoi profondi occhi verdi si trova la dignità di tutte le donne”, dice la giovane, commossa. “Mi trovo sempre a dire che il prossimo 28 maggio compirò undici anni – conclude Filomena – È da undici anni, infatti, che ho cominciato a vivere, mentre per trent’anni sono sopravvissuta. Perfino quando mi stavano portando in terapia intensiva, in un momento di coscienza, mi sono detta: ‘Ecco, adesso finalmente sono libera’. L’ho pagata cara questa libertà, ma oggi è la cosa più preziosa che possiedo”.
Nicola Di Nardo

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