Narrare e vivere la migrazione

“L’attenzione dell’opinione pubblica sembra concentrarsi quasi esclusivamente su aspetti economici del fenomeno migratorio: aspetti strutturali, utilizzando le parole di Karl Marx. Non viene indagata l’eventuale incidenza della componente simbolico-religiosa, geopolitica e psicologica”, afferma la prof.ssa Claudia Santi, docente di Storia delle Religioni, nell’aprire la giornata di studi ‘Narrare e vivere la migrazione’ che si è tenuta l’8 aprile al Dipartimento di Lettere e Beni Culturali. Un incontro che segna la conclusione del progetto di ricerca ‘Miti e riti delle migrazioni tra civiltà antiche e mondo contemporaneo’ volto a comprendere il complesso fenomeno migratorio attraverso un approccio pluridisciplinare e differenziale. Il focus della giornata è stato la contemporaneità. Nell’ambito delle attività di internazionalizzazione, il prof. Giovanni Mauro, docente di Geografia, ha svolto un lavoro sulle migrazioni italo-canadesi, analizzando alcune testimonianze cinematografiche.

450 etnie in Canada

Il Canada è un paese di migranti da sempre, oggi si arriva a parlare di ‘Canada arcobaleno’: un paese che ospita più di 450 etnie con gli italiani nella top 10. Parlando di geografia sociale e del ruolo che il cinema svolge nel rappresentare lo spazio come spazio vissuto, sono state presentate delle testimonianze cinematografiche che mostrano come inizialmente la comunità italiana cercasse di sentirsi a casa in un ambiente che casa non era, fino alla contemporaneità dove il sentirsi a casa non è più il pensare all’Italia, ma è il Canada.

“La comunità italiana diventa una comunità tra le comunità, e la contaminazione diventa la chiave per poter essere accettati, mantenendo comunque una propria identità”, afferma il prof. Mauro. In Italia il saldo migratorio è negativo: le persone che escono, spesso in possesso di skills importanti, non rientrano: “Dinamiche consolidate che rappresentano che non siamo solo un paese di immigrazione, come spesso i media ci dipingono, ma anche di emigrazione”. Il contributo del prof. Mauro si chiude con due testimonianze cinematografiche sull’esperienza migratoria in Canada di giovani italiani laureati.

Il primo documentario, “Road to Canada”, presenta il paese come una ‘terra promessa’; idea che svanisce nel secondo, ‘Good time for a change’, dove lo stereotipo dell’italiano all’estero farà spegnere i sogni e le aspirazioni del migrante.
‘Virgin Mary is also a migrant. La rinascita della processione della Madonna di Trapani a La Goulette tra sicilianità, tunisianità, subsaharianità’: il titolo dell’intervento del prof. Carmelo Russo, Università La Sapienza di Roma. La Goulette è un avamporto di Tunisi, dove, durante il protettorato francese, numerose comunità di siciliani migrarono.

La Madonna di Trapani comincia ad essere legata ad un valore protettivo e la sua processione diventa un mezzo di possesso degli spazi pubblici da parte di cittadini non francesi. La Madonna diventa così il simbolo del riscatto, della marginalità; una Madonna interreligiosa che vede uniti nel suo culto tunisini, musulmani, ebrei. Nel 1956 la Tunisia diventa indipendente: nasce il problema di ‘tunisificare’ il paese, l’elemento europeo viene appiattito e il culto mariano dimenticato. Viene riscoperto nel 2017 da un gruppo di artisti murali di Reggio Emilia. Il loro obiettivo: recarsi presso alcuni luoghi dove la Madonna ha un ruolo simbolico, ed in base al significato che ha per la società contemporanea realizzare un’opera che lo richiami.

A La Goulette questi artisti trovano storie di colonialismo, neocolonialismo e violenza razziale a scapito di migranti dell’Africa subsahariana, che vedono la Tunisia come tappa per raggiungere l’Europa. Si decide di modificare l’iconografia della Madonna nella realizzazione del murale: con il suo mantello protegge i migranti, essendo essa stessa emigrata e simbolo di un’identità plurale, “ancora oggi conserva lo statuto di baluardo politico a sostegno degli ultimi e della subalternità”, conclude il prof. Russo.

Far luce sul ruolo degli operatori delle strutture di accoglienza, come primi rappresentanti di una società che tenta di realizzare una dinamica inclusiva, i contenuti del contributo del dott. Emanuele Bartiromo. Per il minore “una doppia migrazione: una dal luogo delle origini e una dall’infanzia verso l’età adulta”. Abbandono del luogo delle origini, una fase di crescita e sviluppo e la mancanza di garanti socioculturali sono tutti punti di forte vulnerabilità, per questo si parla di micro-traumatismo, una condizione continua e pervasiva di inquietudine e incertezza.

Gli operatori, in questo caso, rappresentano dei sostituti genitoriali, anche compagni d’attesa dell’inserimento nel mondo lavorativo o della documentazione per proseguire il loro viaggio. “Il fine è quello di far sentire i migranti a casa, sapendo che bisogna restare sulla soglia, perché quella non è la destinazione finale di un viaggio di costruzione sia interna che esterna”.

La fede bahà’ì e le persecuzioni

La giornata di studi si è conclusa con due interventi focalizzati sulla fede bahà’ì. Dedizione al servizio comune, parità dei diritti tra uomo e donna, armonia tra scienza e religione, ma soprattutto l’unità del genere umano sono alcuni dei principi fondamentali della fede: racconta nella sua testimonianza Shirin Tebyanyan. La culla del bahà’ì, l’Iran, è stata però il primo luogo da dove sono partite le persecuzioni.

I principi del credo si sono sin da subito scontrati con i principi governativi iraniani e le persecuzioni sono state legittimate da statuti ufficiali. Il prof. Antonio Salvati ha narrato di un aspetto singolare di questa che è la religione universalistica più giovane dell’umanità: la figura del pioniere, figura legata profondamente alla migrazione. L’esperienza della mobilità è per la fede bahà’ì un trauma fondativo dato l’esilio vissuto dal fondatore Bahà’u’llàh e il suo lungo viaggio dalla città di Teheran ad Akkà.

La diaspora viene poi ritualizzata invitando i credenti a migrare per diffondere la fede in tutto il mondo, diventando una pratica rituale e un dovere religioso. La migrazione diventa organizzata e il pioniere come un costruttore di comunità, un “catalizzatore di partecipazione religiosa. Il pioniere non è colui che svolge un semplice attraversamento di confini, ma cerca di riscrivere il senso del confine stesso. Ciò che il caso bahà’ì ci invita a riconoscere è che la religione, anche nella sua dimensione più istituzionale può farsi grammatica della mobilità, forma dell’abitare e pratica simbolica della convivenza”.
Angelica Cioffo
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Ateneapoli – n. 7 – 2025 – Pagina 30

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