“Quello che fa è cercare storie di umanità, quelle pieghe un po’ strane che nessuno vede. Le vede solo lei e le fa vedere anche a noi”. La ‘lei’ è la fotografa polacca, residente in Italia, Monika Bulaj, ospite del corso di Antropologia culturale tenuto dalla prof.ssa Elisabetta Moro. Tanti gli studenti delle Triennali in Scienze del Servizio sociale, dell’Educazione e di Psicologia cognitiva all’incontro Geografie Clandestine del 25 novembre. Bulaj, fotografa e giornalista, definita dalla prof.ssa Moro “esploratrice dell’immaginario”, è famosa a livello mondiale: le sue fotografie appaiono sulle più grandi testate giornalistiche (National Geographic, The Guardian, The New York Times, RevueXXI) e su quotidiani italiani (La Repubblica, Corriere della Sera).
“Ferdinando Scianna, celebre fotografo e fotoreporter italiano, considera Bulaj la più grande autrice di fotoreportage non solo del nostro Paese ma di tutta Europa”, dice la prof.ssa Moro. Bulaj attraverso le immagini racconta le condizioni delle minoranze a rischio, dei popoli costretti a diventare nomadi sottomessi dalle grandi onde migratorie; si focalizza su piccoli microcosmi, sulle periferie, sui luoghi dove il sacro rompe i confini, su quelli che lei stessa definisce “piccoli tesori”. Al momento sta lavorando in contemporanea a due grandi progetti sull’Africa Occidentale “tra gli uomini della tratta degli schiavi e i discendenti di quegli stessi uomini”.
Lo scopo è quello di rompere le mappe mentali basate sull’esclusione e sulla divisione. “Sono partita dal mio Paese per andare sempre di più verso est, alla ricerca di luoghi sacri dove le persone accolgono lo straniero venuto da lontano come se fosse un angelo mandato da Dio”, afferma.
Nelle sue fotografie – che mostra durante l’incontro – la povertà estrema, la condizione della donna in Africa, i popoli brasiliani, caucasici, gli haitiani con i loro culti di possessioni, esperienze molto particolari nel mondo dell’esplorazione, e le loro credenze. Gli haitiani “credono che le anime dei morti ritornino in patria attraverso l’acqua, durante la cerimonia voodoo creano un sentiero, goccia dopo goccia, per chiamare gli dei dall’Africa. Credono che l’oceano stesso che separa l’Africa sia abitato dalle anime dei morti, e che sotto, nelle profondità, ma neanche troppo lontano dalla loro isola, Haiti, esista un luogo sotterraneo in cui le anime prendono le forme di granchi o meduse”.
Bulaj è riuscita a conoscere nel profondo questi popoli a rischio, ad avvicinarsi alle persone, ad affrontare la situazione sociale e politica dell’Africa, perché non lavora soltanto con le religioni ma guarda ed osserva, cerca di catturare tutto ciò che conduce a questa bellezza un po’ soffocata, che è quella delle minoranze a rischio. Poi si sofferma sul ruolo della fotografia che “è una relazione, un incontro, forse uno specchio perché riflette ciò che diamo, è un’esperienza per la quale vale la pena combattere. Il fotografo raccoglie i pezzi di uno specchio rotto e li mette nell’ordine che più reputa giusto”.
Interviene la prof.ssa Stefania Ferraro, sociologa: “Monika ci costringe a riflettere su quanto le culture siano complesse. Ci ha restituito la necessità, il dovere, ma anche la bellezza nel vedere un mondo diverso da quello stereotipato con il quale ci confrontiamo nella quotidianità dei fatti e ci insegna che per poter far questo occorre avere consapevolezza nel rapporto con la conoscenza, con la conoscenza vera, quella che si sporca le mani e i piedi nell’andare a vedere le cose”.
La prof.ssa Helga Sanità, docente di Antropologia culturale e del patrimonio, è rimasta colpita dalle considerazioni degli antropologi sui culti di possessione citati da Bulaj: “gli antropologi definiscono i culti di possessione gli archetipi che vivono nel cuore umano ma gli haitiani sostengono che quando gli antropologi arrivano, gli dei se ne vanno”. L’antropologia, conclude la docente, “è ascoltare” ma “anche sentire con tutto il corpo, incorporare, così come mostra il lavoro di Monika. Ci sono molti fotografi che sanno guardare ma pochi che sanno sentire”.
Maria Buono
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Ateneapoli – n. 19-20 – 2024 – Pagina 34