Alberto Colletti, 32 anni, è un torinese con la passione per il mare che gli è entrata nel sangue da bambino, durante i soggiorni estivi con la famiglia in Sardegna. Da due anni sta lavorando con altri ricercatori per capire fino a che punto la pesca dei datteri – pratica che ha effetti molto negativi sull’ecosistema e che è per questo vietata ormai dal 1988 – abbia pregiudicato la biodiversità nei fondali della Campania e della Puglia. L’indagine si svolge sott’acqua, come è ovvio, e fa parte della sua la tesi di dottorato in Biologia Marina alla Federico II. Colletti si è trasferito a Napoli dopo aver frequentato il Corso di Laurea Triennale in Scienze Naturali nella sua città natale ed aver conseguito la Laurea Magistrale in Biologia Marina ad Ancona. “C’era una borsa di studio per venire alla Federico II – racconta – e l’ho colta al volo”.
Il dattero, dunque. Lo presenta così: “Un mollusco, diciamo un cugino della cozza, che può raggiungere anche i dieci centimetri di grandezza, ma ha una crescita molto lenta. Il più longevo che sia mai stato individuato aveva 80 anni. Si nutre, proprio come le cozze, filtrando gli organismi che sono in sospensione nell’acqua. Prende casa nelle rocce, ma non in tutte. Si insedia in quelle carbonatiche, ma non in quelle di origine vulcanica. Per questo lo troviamo in penisola sorrentina ed amalfitana, a Capri ma non ad Ischia e a Procida”. Nelle rocce “si insedia quando è piccolo. La larva scava con una sostanza acida un foro, una nicchia. Lì si insedia l’animale”.
Un rifugio sicuro, che mette i datteri al riparo da gran parte dei predatori naturali, per esempio dalle stelle e dalle lumache marine, che riescono a mangiare solo gli esemplari più esposti, quelli che sono stati, per così dire, più imprudenti o meno abili nel sistemarsi nella nicchia. Quel rifugio, però, non li aiuta in alcun modo contro i peggiori predoni del mare: i datterari. “Il problema della pesca di questo mollusco – chiarisce Colletti – è legato alla circostanza che, per prelevarlo, si martella e si distrugge la roccia dove questi animali si sono insediati e vivono. Così facendo si fa a pezzi un intero ecosistema, con effetti negativi su moltissimi organismi marini e sulla biodiversità, i quali si protraggono per molti anni”.
Un quadro desolante
Quanto a lungo è appunto oggetto dello studio che il giovane ricercatore torinese sta conducendo insieme ad altri colleghi, anche grazie ai fondi dei progetti del Centro Nazionale per la Biodiversità finanziato su fondi del PNRR e di Act Now. “Negli ultimi due anni – racconta – ci siamo immersi in diversi punti della costa campana – penisola sorrentina ed amalfitana, basso Cilento, Capri – e in Puglia, a Porto Cesareo, nel Salento. Le immersioni si sono concentrate nella fascia tra i 5 e i 10 metri perché è quella all’interno della quale agiscono prevalentemente i datterari. Martellare sott’acqua richiede un notevole sforzo e fa consumare molto ossigeno nelle bombole, per cui preferiscono rimanere relativamente in superficie. Nel corso delle immersioni abbiamo scattato foto, girato video, prelevato sedimenti e svolto altre indagini non invasive e non impattanti”.
Il quadro che emerge è desolante. “Ovunque abbiamo rilevato le conseguenze negative dell’attività dei datterari e, quel che è peggio, abbiamo notato in non pochi tratti della costa monitorati che ci sono anche danni piuttosto recenti. Abbiamo trovato roccia molto fresca con i segni delle martellate. Significa che, nonostante le campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e a dispetto dell’intensificarsi dei controlli e dell’inasprimento delle pene, ancora c’è un’attività di prelievo dei datteri dai fondali”.
Particolarmente grave la situazione sotto il mare in prossimità dello scoglio del Vervece – è nel Comune di Massa Lubrense e rientra nella zona a tutela integrale dell’area marina protetta di Punta Campanella –, nel tratto di costa tra Vico Equense e Meta di Sorrento, in prossimità dei Faraglioni a Capri. “Mi ha sorpreso rilevare i segni dell’attività dei datterari anche nel basso Cilento, in particolare a Marina di Camerota. Credevo che il fenomeno in Campania fosse limitato alla penisola sorrentina, a Capri e alla Costiera Amalfitana. I fondali sono stati rovinati a colpi di martello anche a Porto Cesareo, che ora è area marina protetta”.
L’impatto che determina sulla biodiversità l’azione della pesca – illegale, giova ribadirlo – del dattero: “C’è un serio impoverimento della flora e della fauna. I datteri sono un mattone importante dell’ecosistema e, se lo si toglie, si destabilizza l’intera casa”. Colletti entra nel dettaglio: “La presenza nella roccia di questi molluschi facilita, per esempio, la colonizzazione della Cystoseira, un’alga fondamentale e protetta in Europa, la quale crea l’habitat per specie che poi mangiamo e hanno anche un valore commerciale. Il dattero respirando emette Co2, che l’alga impiega per la fotosintesi clorofilliana. Senza Cystoseira, però, si innesca un effetto negativo a catena.
Soprattutto nelle fasi giovanili trovano riparo nelle foreste di alghe, per esempio, le orate e i saraghi. Se la Cystoseira manca, i pesci vanno via, non frequentano più i fondali. C’è dunque anche un interesse concreto per chi vive di pesca legalmente e rispettando le regole affinché si debelli l’azione dei datterari”.
Il consumo? Ostentazione
Cita un altro esempio dei danni indotti dal prelievo di questi molluschi: “La presenza dei datteri è indispensabile ad un corallo che si chiama Astroides calycularis”. In sintesi, se la specie scompare e se si danneggiano le rocce che accolgono questi molluschi, “si determina un cambiamento radicale nel funzionamento dell’ecosistema. D’altronde le immagini sono eloquenti. Se si osservano foto di un fondale prima e dopo il passaggio dei datterari è evidente la differenza. Dopo sembra di stare in un paesaggio lunare”.
Problema non da poco anche perché il ripristino delle condizioni di partenza – i datteri possono raggiungere densità fino a 1600 individui al metro quadro – può richiedere decenni. In altri termini, i predoni del mare, per lucrare sulla vendita di molluschi che qualcuno acquisterà a 100 o perfino a 200 euro al chilo in prossimità delle feste natalizie, pregiudicano la possibilità di fruire del mare e delle sue ricchezze alle generazioni future.
“Nel corso delle immersioni – racconta Colletti – a fronte di spettacoli desolanti di desertificazione e mettendo per un attimo da parte l’asetticità del ricercatore, mi sono interrogato sulle motivazioni di chi si ostina a consumare oggi i datteri di mare. Mi è capitato anche di parlare con qualcuno che li aveva mangiati quando ancora la pesca non era vietata e mi ha detto che il sapore non è davvero nulla di che. Credo, dunque, che il motivo che spinge all’acquisto e al consumo di questi animali sia legato alla volontà di ostentare, di apparire, di dimostrare qualcosa”.
Colletti discuterà tra qualche mese – prevedibilmente a gennaio 2025 – la sua tesi di dottorato. “Dopo – dice – mi piacerebbe se avessi l’opportunità di continuare a svolgere ricerca in questo settore”.
Fabrizio Geremicca
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Ateneapoli – n.09 – 2024 – Pagina 9