Dai ricercatori napoletani, una terapia contro una grave forma di cecità

Una terapia genica contro una grave forma di cecità, l’amaurosi congenita di Leber, una grave malattia retinica ereditaria e non, che determina già alla nascita, o nella prima infanzia, una forte riduzione della vista e per la quale, finora, non esisteva una cura. I primi incoraggianti risultati clinici sui pazienti trattati sono stati presentati il 5 maggio presso il Rettorato della Seconda Università, grazie ad un importantissimo lavoro di gruppo che ha visto collaborare il Children Hospital di Philadelphia e il Tigem (l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina) di Napoli. L’individuazione dei pazienti e la valutazione degli effetti della terapia sono stati condotti presso il Dipartimento di Oftalmologia della Seconda Università, i pazienti, poi, sono stati trattati al Children Hospital, dove è stato anche prodotto il farmaco: il vettore virale che porta la copia corretta del gene RPE65. Una terapia innovativa che si è dimostrata sicura, non avendo provocato alcun effetto collaterale né locale né sistematico. “Risultati importanti – sottolinea il prof. Giovanni Delrio, Preside della Facoltà di Medicina – che sono stati ottenuti anche grazie all’attivazione del centro di reclutamento regionale, che speriamo la Regione continui a finanziare…”. Lo studio sulla retinità pigmentosa è stato avviato da anni. “Nel ’92, si è tenuto un congresso a Napoli della durata di tre giorni – spiega il prof. Ernesto Rinaldi, direttore del Dipartimento di Oftalmologia della Sun – che ho concluso affermando che ne avremmo organizzato un altro nel momento in cui saremmo stati in grado di rispondere a quella che è la domanda che da sempre ci rivolgono i pazienti: la scoperta di una terapia. Sono molto contento che ora si cominci a dare una risposta a questa domanda e soprattutto che questa risposta venga da Napoli…”.  La prima sperimentazione sull’uomo ha coinvolto il Dipartimento di Oftalmologia diretto dal prof. Rinaldi, con il coordinamento clinico della prof.ssa Francesca Simonelli e con i dottori Francesco Testa e Settimio Rossi, il Tigem di Napoli diretto dal prof. Andrea Ballabio con il coordinamento scientifico del prof. Alberto Auricchio, ricercatore del Tigem e docente presso il Federico II, e i dottori Sandro Banfi ed Enrico Surace. L’amaurosi congenita di Leber è una malattia che riconosce nelle cause il coinvolgimento di circa dieci geni. “Studi preclinici, in animali da esperimento, – illustra il prof. Ballabio – hanno dimostrato che l’inserimento nella retina della copia corretta del gene RPE65, attraverso vettori virali, produce un miglioramento stabile della visione…”. Una sottolineatura: “grazie ai finanziamenti mirati della fondazione Telethon sono state possibili molte cose. Telethon è servita da traino e da stimolo”. Il prof. Antonio Romano manifesta il suo orgoglio “di appartenere ad un Dipartimento che ha sviluppato una ricerca unica. C’è solo una mancanza: il fatto di aver mandato i pazienti in America per poter completare l’opera”. Purtroppo, interviene Ballabio, “occorrono strutture ad hoc per la sperimentazione clinica sull’uomo che, per ora, in Italia non abbiamo”. La retina è stato l’organismo-campo di sperimentazione, in quanto presenta una serie di vantaggi. “L’occhio – spiega il prof. Auricchio – è un organismo racchiuso, che offre maggiori garanzie rispetto ad altri organi, allo stesso tempo la retina è sede di numerose malattie”. Dopo i primi positivi risultati sugli animali, l’équipe ha ritenuto di poter proseguire con la sperimentazione sull’uomo. “Circa un paio di anni fa – spiega la prof.ssa Simonelli – abbiamo reclutato sei pazienti di età compresa tra gli otto e i ventisei  anni. Tutti i controlli oculistici sono stati condotti a Napoli, dopo di che i pazienti hanno subito l’intervento a Philadelphia. L’intervento si è dimostrato molto sicuro, vista l’assenza assoluta di tossicità della terapia e in poche settimane si registrava già un parziale recupero della vista, hanno percepito un allargamento del campo visivo e sono riusciti a percorrere un percorso ad ostacoli. Questo è un segnale forte e un punto di partenza molto importante per la cura anche di altre patologie oculari come la retinite pigmentosa, la degenerazione maculare di Stargardt, la sindrome di Usher e altre forme di amaurosi congenita di Leber”. I pazienti saranno seguiti dall’équipe clinica per cinque anni ed è appena partita una nuova fase di sperimentazione sempre su un paziente italiano, che prevede un dosaggio più alto. 
Maddalena Esposito
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