La professione medica: “tanta tecnica e poco cuore”

“Riappropriatevi della bellezza di questo compito. La mia generazione ha fatto anche cose buone, anche del bene, ma non vi ha lasciato granché: tanta tecnica e poco cuore. Ma voi potete ancora farcela: un grande cammino in salita, ma ce la farete”. Con queste parole si conclude la bellissima lettera, ormai famosa, che il compianto prof. Enrico Di Salvo, scomparso di recente, dedicava un anno fa ai giovani colleghi. Come noto, il docente era ordinario di Chirurgia alla Federico II, Specializzato in Chirurgia urologica, Chirurgia generale e Chirurgia vascolare ed è stato un luminare dei trapianti nel Sud Italia. Impegnato anche in missioni umanitarie, ha fondato l’associazione Sorridi Konou Konou Africa Onlus (ASKKAO) nel Benin.
Una vita, tante vite: in senso lato sono tutte condensate in quella lettera in cui il docente seppe infondere tanti messaggi profondi, anche critici e diretti.
Non esitò a parlare di sanità privata, logica del profitto come aberrante se accoppiata al lavoro umano di cura, di un ammalato che perdeva le sue fattezze umane per assumere quelle cartacee e digitali di faldoni e file. Denunciava la perdita della sympatheia, cioè del patire insieme. E per tenere viva la memoria di quelle parole e farla vibrare dialetticamente, al di là di ogni omaggio, Ateneapoli ha intervistato alcuni colleghi di Di Salvo – qualcuno vi ha condiviso parti importanti del proprio percorso, qualcun altro no – per commentarle e, se possibile, estrarne ulteriori significati. E il primo non poteva che essere il prof. Michele Santangelo, docente di Chirurgia generale, che quella lettera l’ha letta all’assemblea radunata per il saluto a Di Salvo.
Interpellato sulla conclusione, ha detto: “La condivido in ogni sua parte, la lettera. Lui si è riappropriato del compito del medico e ce l’ha trasmesso: aiutare il prossimo e guardare il paziente con occhio umano, cosa che ultimamente non accade più. La spersonalizzazione della medicina è un modo di curare le persone, soprattutto della contemporaneità, ma non apparteneva a lui e ai suoi allievi, tra i quali mi annovero anche io”.
In quella parte finale della lunga epistola, secondo Santangelo, in maniera neanche troppo velata il riferimento è anche alla privatizzazione feroce della sanità: “è sempre stato contro, ha vissuto malissimo la decadenza e mai digerito l’idea delle cliniche private e che qualcuno debba pagare per curarsi. E aggiungo che, pur essendo apertamente dedicate ai giovani, le parole del professore erano dirette anche ai colleghi in servizio. Avrebbe voluto che tutta la categoria medica si riappropriasse della bellezza del compito. Poi un ricordo personale: “avevo undici anni quando sono stato a Milano con mio padre che, con Di Salvo, assisteva ai primi trapianti di rene. Questo per dire quanto è antico e forte il legame”.
Situazione che nel tempo ha fatto nascere “in me la passione per i trapianti e ha fatto sì che lo seguissi nella sua carriera di medico e anche di docente. È stato un fratello maggiore e un Maestro che mi ha accompagnato in tutto il mio percorso. Parliamo di un uomo di un’ironia sferzante e capace di vedere il ridicolo in ogni situazione. Sapeva sdrammatizzare”. E, come anticipato, il chirurgo reputava “aberrante, eticamente riprovevole” un sistema promiscuo che “intreccia un lavoro umano di cura con la logica del profitto”.

“La burocrazia porta alla prevalenza del profitto”

Di queste parole, ne ha dato un’interpretazione la prof.ssa Maria Triassi, docente di Igiene, Presidente del Centro interdipartimentale di Management sanitario che ha diretto la Scuola di Medicina della Federico II: “Credo abbia colto la profonda trasformazione che la medicina ha subito negli anni: da missione, com’era vissuta a fine Ottocento e fino agli anni ’60 del Novecento, è diventata mano a mano una professione che ha lasciato sempre più spazio alla burocrazia, anzi, ne è stata soffocata. Il professore aveva preconizzato questo profondo mutamento: la burocrazia porta alla prevalenza del profitto, invece che dell’aspetto umano”.
Oltre alla fondazione del Dipartimento di Salute pubblica del quale la docente stessa è stata la prima Direttrice, del cammino condiviso con Di Salvo ricorda: “Lui era molto collaborativo ed è stato uno di quelli che mi ha maggiormente supportato. Quando sono diventata Presidente della Scuola di Medicina per la seconda volta, il Consiglio ha destinato un locale del Dipartimento alla onlus che ha fondato. Ne siamo stati entusiasti”. Con normative, ordinamenti, regolamenti, ci ha spesso a che fare il prof. Gerardo Nardone in qualità di Coordinatore della Magistrale di Medicina e Chirurgia.
Sul rischio che tutto questo, in senso lato, possa creare un distacco con l’ammalato, ha detto: “la comunicazione medico-paziente è un punto forte del mio mandato. Abbiamo istituito, infatti, delle ADE dedicate: è un aspetto fondamentale della formazione che offriamo. Il medico deve essere pronto a confrontarsi, a comunicare anche notizie non piacevoli. Capita spesso che l’ammalato non riesca neanche a rendersi conto di come sia caduto nella burrasca della malattia e nemmeno come ne sia uscito, ma certamente ricorda chi gli è stato vicino e chi gli ha parlato. Questa tendenza apparteneva a Di Salvo”.
Fatto non secondario, Nardone lo ha conosciuto anche da studente: “sarà stato il mio primo anno di studi. Un mio compagno di corso era un suo parente e qualche volta ci incontravamo e andavamo a trovarlo in Clinica chirurgica. Mi colpì fin da subito la sua umanità e la sua disponibilità al colloquio non solo verso gli assistenti che collaboravano con lui, ma soprattutto con i pazienti. Queste sue qualità si sono manifestate certamente nella sua attività in Italia, ma anche all’estero, nelle sue tante missioni umanitarie nei paesi meno sviluppati”.
Nei suoi ultimi anni di docenza, infine, Di Salvo ebbe la forte sensazione non solo che “il paziente fosse sempre meno un essere ammalato terribilmente bisognoso di cure e di affetto” ma che stesse anche “transitando verso una nuova identità: un faldone, o meglio ancora una cartella sul desktop del pc di reparto”. È d’accordo il prof. Ivan Gentile, Direttore del Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia: “l’ammalato non deve mai essere un peso e con questa frase lui voleva sottolineare l’approccio che deve avere un medico: tecnicamente ineccepibile, rispettoso dei dettami della letteratura e della buona pratica clinica, ma non basta, occorre un coefficiente di umanità che a volte sfugge in una società tecnica come quella attuale”.
Poi una breve testimonianza personale: “l’ho conosciuto in maniera indiretta, da specializzando, ma era già un mito: faceva trapianti da chirurgo esperto quale era; amava l’innovazione. Durante le consulenze cercavo di apprendere da lui quella tenacia e la passione nel voler salvare chi si era operato. Non solo. Durante una delle visite ad un paziente fu chiamato da un professore importante: gli disse testualmente che, essendo al capezzale di un ammalato, non aveva tempo da dedicare ad altri”.
Claudio Tranchino
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Ateneapoli – n. 5 – 2025 – Pagina 11

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