Verso i referendum: “al di là dei personali convincimenti, è un momento di democrazia irrinunziabile, assolutamente da non mancare”

L’otto e il nove giugno si voterà per cinque quesiti referendari. Il prof. Alberto Lucarelli, che insegna Diritto Costituzionale al Dipartimento di Giurisprudenza della Federico II, riflette sull’istituto del referendum ed entra nel dettaglio dei quesiti ai quali risponderanno tra qualche settimana gli italiani che andranno a votare.

Quanti tipi di referendum prevede il nostro Ordinamento?
“La Costituzione ne prevede quattro. Il più noto è il referendum abrogativo. Seguito dal referendum costituzionale. Concepito dai Costituenti come strumento solo eventuale, a partire dalla bicamerale De Mita-Iotti, è divenuto una tappa quasi obbligatoria: governi a maggioranza assoluta riscrivono la Carta e poi inseguono la ratifica popolare in chiave populista e plebiscitaria, senza doversi preoccupare del quorum. Da strumento oppositivo alle modifiche costituzionali è stato ridotto a mezzo di integrazione della volontà del parlamento, o meglio del governo. Ci sono poi il referendum consultivo per le modificazioni territoriali di Regioni, Province e Comuni e i referendum regionali, disciplinati dagli Statuti delle Regioni. Inoltre, l’articolo 8 TUEL consente a Comuni e Province di inserire nei loro Statuti referendum consultivi popolari. Una forma di partecipazione purtroppo mai decollata”.

Quando si è svolto in Italia il primo referendum?
“L’Italia così come la conosciamo oggi è nata dal referendum del 2 giugno 1946. Il giorno in cui i cittadini, dopo la liberazione dalle forze nazi-fasciste, scelsero la forma di Stato repubblicana. È la data fondativa della nostra democrazia, quando il demos viene posto al centro dei processi decisionali, il popolo diventa sovrano nell’articolo 1 della Carta e nasce la Repubblica democratica. In quell’occasione il voto non fu liturgia, ma un momento di liberazione collettiva”.

Le consultazioni sul divorzio e sui beni comuni

Quali sono stati, dal suo punto di vista, quelli più significativi?
“Penso subito al referendum del 1974 indetto per abrogare la norma che nel 1970 aveva introdotto il divorzio, la legge Fortuna-Baslini. Fu il primo vero banco di prova della maturità democratica del Paese. Non si trattò solo di voto, l’Italia era spaccata in due tra le forze cattoliche che insistevano sulla sacralità del matrimonio e le forza laiche. La vittoria del NO rappresentò un’affermazione netta del principio di laicità dello Stato, in un Paese dove addirittura una parte dei democristiani in Assemblea Costituente avrebbero voluto inserire nel testo costituzionale il principio dell’indissolubilità del matrimonio.

In tempi più recenti, a parte lo scontro politico-sociale nel 1985 sulla scala mobile, che segnò l’insorgere del primo populismo verticistico craxiano, il più importante referendum è stato quello del 2011 sui cosiddetti beni comuni. Si registrò il tasso di partecipazione più alto degli ultimi quindici anni. 27 milioni di cittadini si espressero non solo contro la privatizzazione dell’acqua ma, più in generale, contro modelli di gestione dei servizi pubblici locali orientati a logiche di privatizzazione e di profitto. Passò un messaggio più grande: l’acqua come bene comune e un diritto universale. Ero fra gli estensori dei quesiti, in origine tre, e due superarono il vaglio di ammissibilità della Corte.

E non fu affatto semplice. Li difesi anche dinanzi alla Corte Costituzionale in ordine al giudizio di ammissibilità. Fu uno scontro giuridico di grande interesse e spessore, che vide la Corte, con un importante slancio di apertura culturale, accogliere la nozione giuridica di beni comuni. Il decreto Ronchi (convertito in legge nel 2009) che privatizzava i servizi pubblici locali si apriva con la dicitura ‘in attuazione del diritto europeo’. Bisognava dimostrare che non era una ‘norma comunitariamente necessaria’ e superare l’assunto – sbagliato – che il diritto europeo imponesse agli Stati membri di privatizzare i servizi pubblici locali. Si argomentò, dinanzi alla Corte, in sede di giudizio di ammissibilità, che l’obiettivo della disciplina euro-unitaria non era la privatizzazione dei servizi pubblici locali, ma l’applicazione della regola della concorrenza, ovvero consentire a più privati di concorrere per ottenere l’affidamento della gestione del servizio.

Ma si precisò che la regola della concorrenza è una norma di carattere generale che prevede che i servizi pubblici locali debbano essere preferibilmente, ma non necessariamente, posti sul mercato. Si sostenne il diritto da parte dei Comuni di poter derogare a questa regola, motivandone la decisione. Risultato: la Corte accolse l’argomento per cui il decreto Ronchi non fosse una norma comunitariamente necessaria, ma una scelta di politica legislativa del governo Berlusconi, dichiarando l’ammissibilità del quesito referendario.

Inoltre, bisognava dimostrare che l’abrogazione di quella norma non creasse un vuoto legislativo. La Corte, accogliendo le argomentazioni a sostegno della legittimità del quesito referendario, negò l’ipotesi del vuoto legislativo, sostenendo che, seppur in via transitoria, i singoli Comuni avrebbero potuto gestire i servizi invocando direttamente il diritto europeo. E questa fu la strada che io seguii da assessore all’acqua pubblica e ai beni comuni di Napoli nel 2011, la trasformazione di una società per azioni in azienda speciale, l’attuale ABC (Acqua Bene Comune), che tuttora gestisce il servizio idrico nel capoluogo partenopeo.

L’esperienza referendaria del 2011 è stata occasione per la Corte di dimostrare il principio della neutralità del diritto europeo rispetto agli assetti proprietari, superando la retorica per cui l’Europa ci chiede di privatizzare sempre e comunque. Dopo la vittoria dell’abrogazione era necessaria, quale atto naturale consequenziale, che il Parlamento approvasse una legge dello Stato che andasse a disciplinare i servizi pubblici locali, secondo le indicazioni referendarie. Ma il governo Berlusconi nell’agosto 2011 riproponeva una norma che sostanzialmente si rifaceva alla norma abrogata. Questo è incostituzionale.

La Regione Puglia impugnò e vinse il giudizio. La Corte ribadì la subordinazione del potere legislativo alla volontà espressa dal popolo e sollecitò una legge di attuazione a stretto giro. Ma oggi, quattordici anni dopo, quella legge non esiste. Stiamo portando la questione a Strasburgo con il Forum dei movimenti per l’acqua: auspichiamo una sentenza di condanna per lo Stato italiano che possa dare giustizia a quei 27 milioni di cittadini che votarono NO e che hanno visto la propria volontà frustrata dai governi. Le privatizzazioni non si sono fermate e questo ha generato un aumento delle tariffe con il conseguente peggioramento della qualità della vita personale e familiare. L’esperienza del 2011 ci restituisce purtroppo la dimensione della distanza che può crearsi tra sovranità popolare e sovranità legislativa”.

Un istituto in crisi

Si è parlato spesso di crisi dell’istituto referendario. Lei condivide queste considerazioni?
“Si inserisce in una crisi più grande, quella dei luoghi classici della rappresentanza. La crisi dei partiti, la fine delle ideologie, il fenomeno di mani pulite, il culto del leader e della governabilità hanno messo in crisi il sistema della rappresentanza. È stato messo a nudo il deficit democratico che è alla base del modello contrattualistico su cui si fonda la rappresentanza. Oggi, non è possibile prescindere dalla fictio della rappresentanza ed è da ingenui parlare di cittadinanza attiva, c’è necessità piuttosto di andare non contro la rappresentanza ma oltre la stessa, magari ‘arricchendola’ di contenuti sul piano della effettività.

Gli istituti della rappresentanza vanno integrati con le istanze di democrazia partecipativa che provengono dal basso e che sono espressione dei processi di liberazione e resistenza dei cittadini. Penso ai movimenti, ai comitati non strutturati dove si esprimono conflitti, tensioni e si dà visibilità al dissenso. I cittadini nel circuito della rappresentanza sono diventati invisibili. E per diventare visibili devono partecipare. C’è bisogno di spazio dove il cittadino si riappropri di quella tensione democratica in cui esprime sé stesso.

E si spinge al punto di provare a produrre egli stesso diritto. E anche il referendum per essere effettiva espressione e attuazione della democratica partecipativa ha bisogno di arricchirsi attraverso l’informazione, la formazione permanente, il dissenso, il conflitto, la condivisione, per esprimere con consapevolezza i propri diritti politici di partecipazione, resistendo a forme di manipolazione e semplificazione. Sono questi stadi necessari per maturare sapere e coscienze collettive. In assenza di questi necessari percorsi, anche la democrazia diretta non è in grado di generare fenomeni di partecipazione, ma si limita a realizzare solo obiettivi prefissati”.

Perché tante volte, negli anni più recenti, non si è raggiunto il quorum?
“Perché i cittadini non partecipano più. Alla totale disaffezione per la rappresentanza politica i cittadini rispondono con l’astensionismo. Certo il quorum è uno scoglio importante. Quando il referendum fu disciplinato nel ’70 c’era grande partecipazione politica. Forse oggi sarebbe necessario valutare l’abbassamento del quorum per renderlo maggiormente coerente con l’attuale tasso di partecipazione al voto. Si aggiunge poi che spesso i quesiti sono troppo tecnici e vengono percepiti dai cittadini come settoriali, allontanandoli dalle urne. Infine, il problema della comunicazione: troppo spesso la comunicazione si riduce a pochi spot formali, a poche settimane dal voto. Servirebbe un’azione molto più incisiva. Il cittadino deve essere informato per poter partecipare consapevolmente”.

Si torna a votare per i referendum tra qualche settimana. Ritiene che sia adeguata la campagna di informazione che si sta portando avanti?
“I referendum dell’8 e 9 giugno investono temi importanti: il lavoro, la sicurezza e la cittadinanza. Eppure, la seconda carica dello Stato proclama: ‘Farò campagna perché la gente stia a casa’. Già lo denunciai all’epoca dei referendum sulle trivelle. L’invito all’astensione è di dubbia costituzionalità, vieppiù se proviene da alte cariche dello Stato. È una pratica odiosa, codarda e meschina di chi non ha neppure il coraggio di esprimere la propria opinione. Ha in sé una carica distruttiva ed impeditiva rispetto all’affermazione del diritto di voto, un dovere civico.

I contrari all’abrogazione approfittano parassitariamente dell’astensionismo per far fallire i referendum, piuttosto che argomentare criticamente e democraticamente le ragioni del NO. Il cittadino viene trattato da soggetto mediocre, che è più facile indirizzare che convincere. Ma chi è affidatario di funzioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 54 della Costituzione, ha il dovere di adempierle con disciplina ed onore. E tra i primi doveri inderogabili di solidarietà politica vi è quello di rispettare i principi costituzionali, tra i quali, ovviamente, il principio di rimuovere gli ostacoli alla partecipazione politica”.

I cinque quesiti

Per ciascuno dei prossimi referendum, cosa è chiamato a decidere l’elettore?
“I quesiti sono cinque: su Jobs act, contratti a termine, licenziamenti nelle piccole imprese, appalti e cittadinanza. Si propone l’abrogazione di uno dei decreti del Jobs act che riguarda il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. L’obiettivo è ripristinare la possibilità di reintegrazione del lavoratore nel suo posto di lavoro, in tutti i casi di licenziamento illegittimo.

Indennità per licenziamenti nelle piccole imprese: questo quesito mira a eliminare il tetto massimo all’indennità per licenziamenti illegittimi nelle aziende con meno di 15 dipendenti, consentendo al giudice di determinare l’importo senza limiti predefiniti. Contratti a termine: si propone l’abrogazione delle deroghe introdotte dal decreto legislativo 81/2015 che hanno trasformato il tempo determinato da eccezione a regola, allungandone durata, proroghe e rinnovi. L’obiettivo dei quesiti nel suo complesso è di riporre al centro i diritti dei lavoratori e la loro dignità, secondo una visione costituzionalmente orientata, frenando altresì la precarietà strutturale e la farraginosa e frammentata normativa vigente, di non sempre facile applicazione.

Responsabilità solidale negli appalti: il quesito chiede l’abrogazione della norma che esclude la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore, per gli infortuni sul lavoro derivanti da rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici, restituendo piena tutela alla sicurezza sul lavoro. Cittadinanza italiana per stranieri: si propone di dimezzare da dieci a cinque anni la residenza legale richiesta agli stranieri extracomunitari maggiorenni per chiedere la cittadinanza italiana, allineandola ai precedenti dettati normativi, ma soprattutto all’insorgere di mutati scenari geo-politici e alle rinnovate esigenze socio-economiche.

In ogni caso, al di là dei personali convincimenti, il referendum costituisce un momento di democrazia irrinunziabile, assolutamente da non mancare, un’occasione di confronto e discussione, soprattutto per chi è chiamato a votare per la prima volta”.
Fabrizio Geremicca
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Ateneapoli – n. 9 – 2025 – Pagina 4-5

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