Nata agli inizi degli anni 2000 nella lontana Thailandia, ha cominciato a diffondersi nei Paesi limitrofi per arrivare, con un po’ di ritardo, anche in Europa. Prima la Francia, negli ultimi tempi anche l’Italia. Stiamo parlando di gastro-diplomazia, una disciplina tutta nuova – a tal punto che una definizione univoca ancora non è stata coniata – che sta prendendo sempre più piede nel mondo. Di sicuro, si può dire che “indica strategie pensate e messe in campo dai singoli Stati per promuovere la cultura culinaria nazionale all’estero. Alcuni la chiamano diplomazia culinaria, altri diplomazia del cibo”. A dirlo è il ricercatore Felice Farina, esperto e docente di Politica e Istituzioni del Giappone contemporaneo a L’Orientale, che tiene, mentre andiamo in stampa, un intervento a distanza sul tema, per Futuro Remoto. Un’ora e mezza circa a raccontare alla platea studentesca tendenze, obiettivi e origine di questo campo sconosciuto ai più. Se è vero che alla base delle strategie di gastro-diplomazia c’è un’esigenza di carattere economico – ovvero “aumentare le esportazioni di cibo” – d’altra parte, gli studi condotti da Farina, che si è laureato in Relazioni Internazionali alla Triennale, in Relazioni e Istituzioni dell’Asia alla Magistrale per poi concludere con un Dottorato in Asia, Africa e Mediterraneo, si stanno focalizzando sull’aspetto simbolico, sul messaggio che la cultura culinaria può veicolare. “Sto portando avanti un progetto Pon per provare a capire in che rapporto possono stare cibo e sostenibilità. Prendiamo il caso del Giappone, che ha puntato sulla territorialità e l’ambiente. È riuscito a promuovere un’immagine della propria cucina legata alla salute, allo star bene. Questo al di là della qualità del cibo che si consuma”. Volendo ripercorrere il breve tragitto storico della gastro-diplomazia, dalla Thailandia è arrivata in Malesia, poi in Corea e, appunto, in Giappone. In Europa, ad eccezione della Francia, che “più o meno nel 2013 ha iscritto la propria cucina nel patrimonio Unesco”, la situazione è stata più problematica. Soprattutto per l’area del Mediterraneo. “Facendo riferimento all’Italia, il ritardo è dovuto ad una scelta specifica. Cioè quella di promuovere la dieta mediterranea, che è condivisa da altri Paesi, come Turchia, Spagna, Croazia. Di conseguenza, l’internazionalità di questa cucina ha reso più difficile individuare strategie di proiezione di un solo Stato”. Tuttavia, il Bel Paese sta facendo dei passi in avanti – si può pensare anche ad Expò2015 a Milano – avendo varato la strategia Italian Food Taste, che sponsorizza la nostra cucina all’estero. Culturalmente, il patrimonio culinario può diventare scambio e luogo d’incontro tra popoli. Non solo: il cibo è sempre più autopromozione.