La magia della musica in aula con Roberto Colella, frontman de La Maschera

Incontro a Studi Umanistici promosso nell’ambito del seminario ‘Scritture in transito’ della prof.ssa Acocella

Due ore di assoluta magia. Roberto Colella, frontman del gruppo musicale La Maschera, ha rapito i cuori e le menti di tutti gli studenti che hanno preso parte, lo scorso 1° dicembre nell’Aula 1 della sede centrale, all’incontro settimanale di un seminario che ormai è storia della Federico II, e in particolare del Dipartimento di Studi Umanistici: Scritture in transito. Organizzato dalla prof.ssa Silvia Acocella, docente di Letteratura italiana contemporanea – ha definito la presenza del cantante “un dono” – e gestito assieme ai collaboratori Carmen Lega, Achille Campanile e Annachiara Monaco. Che hanno preso idealmente per mano il musicista – e i presenti – invogliandolo a rievocare i sentimenti nascosti dietro le parole di alcuni testi celebri come “O’ vicolo e’ l’alleria”, a scavare nella sua visione di Napoli, dell’amore “scostante” cantato negli album, del rumore “presenza fissa che diventa melodia”, hanno detto Lega e Campanile. Insomma, a sondare i passaggi fondamentali di un percorso musicale che si fa filosofia di vita, immergendosi con sguardo sociale e poetico in una realtà che ha le sue radici in ogni Sud del mondo. E ne è venuto fuori un incontro fatto di aneddoti pieni di ironia e malinconia al tempo stesso – dal video registrato in Senegal, “perché in Italia costava troppo”, scherza Colella, sottolineando come “tutti, lì, hanno mostrato un’ospitalità fantastica, ci hanno trattato come fratelli”, al racconto dell’invalido “Zi’ Peppone”, alla morte della fidanzata di un amico, che gli ha dato il là per scrivere un testo. I momenti di maggiore coinvolgimento, nemmeno a dirlo, quelli in cui il cantante, armato di chitarra, tastiera e qualche strumento a fiato, ha intonato alcune tra le sue canzoni di maggiore successo. Pullecenellascritta tra i banchi dell’università, lasciata poi per la vocazione arrivata dalla musica, “paradossalmente, da quel momento non ho mai smesso di studiare”, ha detto dopo aver eseguito il brano – “Te vengo a cercà”, il cui video è stato girato nei pressi di Dakar, in Senegal. E ancora, “Sotto chi tene core”, un inno alla presa di posizione, al coraggio e alla resilienza, punto di partenza della prima fatica letteraria di Colella, “Napoli 1943. Sotto chi tene core”, del quale pure si è discusso all’evento. Ultime chicche regalate agli studenti, totalmente assorbiti, “Mirella è Felice” e “Confessione”. A margine, dopo le interessanti domande dei presenti – a proposito del merito nel mondo universitario, Colella ha detto: “spesso lo si confonde con la fortuna, per me merita chi lavora mentre studia, senza nulla togliere agli altri” – tanti selfie, autografi e le parole del cantante rilasciate in esclusiva ad Ateneapoli.

Sui social qualche giorno fa hai pubblicato le foto di alcuni vecchi quaderni, sui quali hai scritto le tue prime canzoni ai tempi dell’Università. Che studente sei stato? Quando è arrivato il primo contatto con la musica?

“Il primo contatto è arrivato a 17 anni, ero al liceo, e ti assicuro che fino a quel momento sono stato uno studente modello. Ero attento, mi ci dedicavo molto. Quando poi è arrivata la musica, ho capito di dover fare tutt’altro. Mi sono iscritto a Lingue, ma ero consapevole del fatto che fosse un palliativo, perché io volevo suonare. Mi serviva solo tempo, perché i miei genitori volevano che trovassi lavoro, e allora mi sono detto okay, prenditi un paio d’anni (all’Università, ndr) per scrivere quello che senti”

Rispetto agli inizi, cosa è rimasto uguale e cosa è cambiato in te e nel gruppo?

La matrice comune è l’anima, quella resta uguale pur assumendo sfaccettature nuove. Ho sempre scritto pensando di raccontare qualcosa. Questo pure è rimasto uguale: raccontare una storia, una vicenda, una sensazione anche in senso visivo. Sono andato avanti, migliorando, nella competenza musicale, nella ricerca. Penso di non aver mai suonato meno di otto ore al giorno. Mi sveglio la mattina timbrando cartellino virtuale e finisco alle due di notte.

Cantate “O’ vicolo e l’alleria”, un luogo ideale, che non esiste. Dove cercate l’allegria personale?

La musica mi salva da tante cose, anche dalla tristezza. Anzi, lì per lì la musica te la fa avvertire ancora di più, ma dopo stai sicuramente meglio. Vedo e sento la vita in bilico tra allegria e malinconia, un po’ come Napoli, che ha questa doppia anima. Cerco comunque sempre di vedere il lato buono delle cose”.

Perché hai scelto, nel tuo libro, di iniziare dalle Quattro Giornate di Napoli?

“È una parte del sottotesto della canzone “Sotto chi tene core”. All’epoca, quando l’ho scritta, mi sembrava giusto parlare di resistenza. Certo, non c’era lo spettro della guerra, ma c’era l’ansia del lockdown e mille altre guerre nel mondo”.

La vostra è una musica che parla a chi soffre, che racconta di contraddizioni. Che rivoluzione vorreste per Napoli?

Unica cosa che ci potrebbe far migliorare non è una rivoluzione, ma un’evoluzione. Migliorare sé stessi, portare cultura laddove non c’è. È chiaro che a volte si avverte una sensazione di regressione, invece dovrebbe essere il contrario”.

Claudio Tranchino

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