Alberi artificiali a Porta Capuana e alla Duchesca per migliorare il microclima

I climatologi per definire le condizioni delle metropoli ricorrono spesso alla definizione: “isole di calore”. Luoghi – significa – nei quali il calore che l’asfalto restituisce all’atmosfera, lo smog e la scarsità di verde determinano temperature mediamente più elevate rispetto a quelle che si registrano altrove nel medesimo periodo. Napoli non fa eccezione. Una delle sfide da vincere, per migliorare la vivibilità urbana, è appunto modificare l’impatto negativo determinato da scarsità di ombra ed asfalto. Piantumare alberi, come noto, è la via maestra. La più economica e la più salutare. Ce ne sono, però, anche altre. Tutte chiamano in causa, tra gli altri, i progettisti ambientali. Francesco Scarpati, 25 anni, napoletano, ha dedicato la tesi discussa qualche tempo fa ad Architettura proprio ad una ipotesi di miglioramento microclimatico degli spazi aperti a Porta Capuana ed alla Duchesca, due aree molto congestionate in prossimità della Stazione centrale di Napoli. Il suo lavoro, che è stato seguito in qualità di relatore dal prof. Mario Losasso, il Direttore del Dipartimento, e, in veste di correlatore, dalla prof.ssa Valeria D’Ambrosio, è stato premiato con 110 e lode e dignità di pubblicazione. Premette il neoarchitetto: “L’esigenza di migliorare gli spazi aperti urbani sarà sempre più avvertita nei prossimi anni perché il cambiamento climatico può rendere le città
invivibili. Eppure si possono migliorare con operazioni semplici e poco costose, per esempio la sostituzione delle pavimentazioni e le piantumazioni”. Prosegue: “Ho scelto di lavorare sulla Duchesca e su Porta Capuana perché mi affascinava il ruolo di area cerniera. È un confine tra la città storica e Napoli est. Il mio progetto si basa sull’approfondimento dei luoghi dal punto di vista storico, sull’analisi dei documenti e dei progetti del passato”. Nello specifico, prosegue, “nella zona della Duchesca sono intervenuto con strutture ad albero. Alberi artificiali in acciaio con tele in film organico fotovoltaico. In via Mancini il progetto prevede una serie di interventi sul palazzo Kimbo, che è diviso in tre parti: quella basamentale per funzioni pubbliche, quella intermedia che ha un ruolo
residenziale ed il tetto. Ho creato una struttura a velo che dal palazzo si estende verso la strada. Il basamento è una struttura in cemento nanotech. Nella parte residenziale ho previsto strutture a telo per schermatura solare. Nella parte di sopra una pensilina circondata da strutture a tenda illuminate di notte che creano una sorta di lama di luce”. La tesi immagina, poi, una serie di operazioni volte a richiamare l’antico sistema delle mura aragonesi oggi distrutte. “Lungo il percorso delle storiche mura – spiega Scarpati – c’è una pavimentazione in lastre di pietra lavica ricomposta con lastra di acciaio centrale e faretti che si intervallano. Nei pressi di Piazza Garibaldi la struttura si innalza a formare una serie di pilastri che sorreggono una lastra rivestita in acciaio corten. L’irregolarità della
disposizione dei pilastri richiama l’irregolarità degli antichi torrioni”. Nell’ambito del lavoro di tesi, Scarpati ha cercato, inoltre, di sviluppare una metodologia che aiuti gli architetti a misurare il miglioramento del comfort ambientale esterno e quello, conseguente al primo, del comfort delle case che affacciano sulle aree sottoposte agli interventi di progettazione ambientale. “Esistono già – premette – software per intervenire su varie problematiche,
ma non comunicano tra loro e non si scambiano i dati. La mia idea è stata di creare un unico ambiente di lavoro dove incrociare i dati e poi stabilire l’incremento di comfort ambientale nell’ambiente interno. In particolare di una casa del palazzo Kimbo. Ho usato un software che si chiama Grasshopper nel quale, attraverso la scrittura di una serie di componenti opportuni, ho interfacciato i vari dati raccolti”. La preparazione della tesi è durata otto mesi, da marzo ad ottobre 2016. “Sono abbastanza orgoglioso – commenta l’autore – di quello che ho fatto e vorrei continuare a lavorare nel campo della progettazione ambientale, anche perché oggi la figura di architetto generico che fa tutto non è più molto spendibile. È necessario specializzarsi”. Bilancio degli anni trascorsi ad Architettura? “Mi sono trovato abbastanza bene e, avendo vissuto anche una esperienza in Germania, a Berlino ed a Monaco, posso certamente dire che sotto il profilo della preparazione non abbiamo nulla da invidiare loro. Sotto il profilo della organizzazione sì, ma è un altro discorso”. L’esame più complicato? “Forse Scienza delle costruzioni è stato il più duro, ma nessuna delle prove che ho affrontato nel mio percorso universitario è stata particolarmente ardua o
facile”. Avverte: “Il segreto per arrivare in porto nel migliore dei modi possibile è la passione. Se manca, non ce la si fa, perché comunque Architettura richiede una dose di impegno quasi professionale. Bisogna essere consapevoli ed appassionati. Poi è fondamentale lavorare con costanza. Se ci si ferma non si recupera. Quando si lavora ad un esame di progettazione si deve interagire costantemente con il professore, confrontarsi”. Il futuro, a 25 anni e con una laurea in tasca, è ancora una meravigliosa incognita. “Da quando mi sono laureato – racconta – ho iniziato a collaborare in ateneo con il prof. Losasso, ma penso anche di tornare all’estero. Ora voglio provare a fare esperienza ovunque. Sarebbe bello aprire uno studio di architettura che lavori in Italia ed all’estero”.
Fabrizio Geremicca
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