In Benin la nuova missione umanitaria del prof. Enrico Di Salvo

E’ appena tornato dal Benin, un piccolo Stato a sud-ovest dell’Africa, dove, per tre settimane, ha svolto un periodo di volontariato, come fa ogni anno ormai dal 2000. Enrico di Salvo, docente di Chirurgia generale presso il Federico II, ci parla di questa esperienza e l’aggettivo che usa per descriverla è “fantastica”. “Quest’anno – dice Di Salvo – sono andato con un gruppo molto preparato, c’erano tra gli altri Umberto Bracale, chirurgo generale, Carla Migliaccio, giovane specializzanda, e le due neonatologhe Stefania D’Amora e Gina Fabbrocino”. A questi specialisti dell’area sanitaria si è aggiunto Riccardo, il figlio ventiseienne del prof. Di Salvo, laureando in Economia Aziendale, che ha deciso di partecipare a questa esperienza che lo aveva molto attratto e un minimo spaventato. Professore, com’è la situazione nel Benin? “Beh… diciamo che l’unica cosa positiva è l’assenza di guerre civili da almeno vent’anni. Per il resto, si vive in condizioni di estrema povertà: basti pensare che su sette milioni di abitanti, sei milioni e mezzo vivono ben al di sotto della soglia di  povertà, e cioè con meno di un dollaro al giorno”. Lavorare in territori del genere significa confrontarsi con situazioni e casi particolarmente duri. “Abbiamo svolto la nostra attività in un ospedale camilliano che, attualmente, dispone di un buon blocco operatorio… i malati più numerosi sono quelli affetti dall’ulcera di buruli (la nuova lebbra, causa di mutilazioni e amputazioni), trasmessa da una cimice acquatica, ma in ospedale arrivavano di frequente donne con violente emorragie, dopo aver partorito nei villaggi o vittime di aborti mal eseguiti. Tanti i casi di perforazioni da tifo e cancro in forte aumento, per la cura del quale non esiste alcuna sorta di medicinali. C’è veramente tanto da fare, il lavoro è pazzesco”. Voglia di aiutare sì, ma anche una buona dose di determinazione. Non ci sono mai momenti di sconforto? “Certo che ci sono. Queste esperienze sono un’altalena tra incredibili soddisfazioni e commozione. Operare un uomo ma sapere che non vivrà a lungo perché non potrà mai essere sottoposto a chemioterapia, veder morire una ragazza a ventisei anni per un’emorragia post-parto sono eventi che scuotono violentemente la coscienza…”. Ma cosa spinge un medico, puntualmente ogni anno, a svolgere un periodo di volontariato presso le zone più povere del Sud del Mondo? “Io sono un figlio dell’Occidente, ma ho sempre pensato che il nostro dovere non si riduce a curare il nord ricco del mondo. Negli undici mesi dell’anno che sono qui, il mio pensiero va spesso in Africa, dove è tutto drammaticamente vero, dove la gente non si lamenta perché non sa se il giorno dopo avrà da mangiare. Esattamente il contrario del mondo occidentale nel quale viviamo, dove è tutto un teatro …”. 
Maddalena Esposito
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