Tête-à-tête bisbetico con l’attrice

Partiamo dal titolo. Da chi e da cosa è messa alla prova questa Bisbetica? “Assolutamente da se stessa, nel suo essere una commedia incompiuta e incompleta, ricca di ‘difetti’ giovanili e non perfettamente sviluppata. La difficoltà maggiore, quella di mettere in scena nel 2016 uno spettacolo che avrebbe in teoria almeno 34 attori. È una cosa che non si può fare per motivi di budget, siamo noi a dirlo esplicitamente proprio in scena. Per di più, è difficile intrattenere per due ore il pubblico con uno Shakespeare. Sono state compiute perciò una serie di operazioni per rendere fruibile il testo. Il nostro problema era far tornare la storia principale. Ci siamo riusciti con un gioco di ‘teatro nel teatro’”. In altre parole, si fa l’eco a una soluzione di tipo pirandelliano (non a caso, questo il nome della compagnia). Cosa viene sacrificato e cosa, invece, resta dello spirito elisabettiano? “Il metateatro è stato un escamotage per ridurre il testo e il numero degli attori. Non siamo riusciti a rispettare la metrica dell’originale, perciò ai versi si alterna la prosa. Inizialmente, lo spettacolo era più complicato e lungo, ma la trama non soleva scorrere, da qui i numerosi tagli. Cosa accade? Una compagnia scalcagnata deve mettere in scena la Bisbetica e agli ultimi giorni di prove viene abbandonata dal regista. Come fare? Come in realtà fanno spesso gli
attori: si mettono alla prova e si fanno delle proposte perché, come si sa, the show must go on”. Ecco, per ritornare al refrain dei Queen, l’allestimento esplora una serie di linguaggi musicali, dal rap al pop, passando per il tango e la
lirica. Come si spiega questa scelta? “Nella necessità di dover riadattare tutti i riferimenti. Pertanto, quello che era un richiamo a un musicista di corte del ‘500 ora è Fedez. Questo perché è uno spettacolo che si propone di comunicare a chiunque. È anche scurrile a volte, c’è il turpiloquio dove è richiesto. Abbiamo respinto qualsiasi traduzione edulcorata o eccessivamente letterale. È stato difficilissimo rendere i giochi di parole o i doppi sensi in italiano, che tradotti non funzionano mai, e siamo andati giù pesantissimo per il bene della comunicazione e dell’efficacia”. Il primo passaggio è stato dunque rivisitare il linguaggio. Un vastissimo repertorio di musiche che
collima con un’altrettanta variegata commistione di registri linguistici. Qual è il fine di questo pastiche?“ Il testo teatrale si legge come uno spartito musicale. Era fondamentale parlare in modo comprensibile senza, però, tradire l’autore. A furia di mantenere la forma esatta tradotta si perde tutto il divertimento. Il racconto shakespeariano resta in una versione infedele, ma innamorata. È un’invenzione postuma lo snobismo di dire ‘con Shakespeare, si alza la corona’. Egli stesso comunicava al popolo talora in maniera becera, brutale o volgare, e questo era necessario per
arrivare dritti all’emozione degli spettatori, con tutti i registri possibili, dal guitto alla commedia raffinata, alla poesia, compresi i regionalismi d’appartenenza. Il napoletano, anzitutto”. ‘I classici vanno contaminati, altrimenti
non si capisce niente’, una sua battuta nello spettacolo. In che modo i copioni vetusti sono stati riadattati alle necessità del contemporaneo? “Nel ‘500 era affare di tutti i giorni la prevaricazione dell’uomo sulla donna. Oggi, invece, è ridicolo affermarlo. Al contrario, la donna è ‘multitasking’, una creatura straordinaria, abile nel gestire mille cose insieme. A noi non interessava recitare il dramma-stereotipo, ma riadattare i classici per renderli intellegibili in tutte le sfumature, dentro e fuori, e far avvicinare soprattutto i giovani. Sono toccate moltissime questioni odierne,
anche sociali: la disoccupazione, per bocca di un attore della compagnia, o ancora il servilismo e le umiliazioni cui sono sottoposte tante donne dai propri mariti, o datori di lavoro. È questa l’universalità di Shakespeare: prestarsi in ogni tempo all’attualizzazione di dinamiche onnipresenti nella società”. Come fare per mettere in pratica quest’osmosi tra i giovani e il teatro? “Il problema è che il teatro spesso è visto come una cosa vecchia, stantia, che sa di muffa o dove gli attori fanno ancora i cosiddetti ‘tromboni’. Quando si apre il sipario, si sente odore di naftalina e spesso ci si domanda se si sta interloquendo con le persone giuste. Invece, al posto di un assorbimento passivo, a noi piace quando il pubblico ci aiuta ed è preparato, lo spettacolo viene indubbiamente meglio, perché i pensieri e le sensazioni ritornano. Questo si può fare con coloro che affinano continuamente il proprio sapere. Io per esempio sono una ficcanaso, studio ancora”. Cosa ha significato per lei interpretare Caterina? E che tipo di lavoro ha compiuto, sul testo e fuori, per vestire i suoi panni quando il canone è ormai spazzato via? “Molta fatica, in primis perché dovevamo trovare tante soluzioni per far sì che i tagli non inficiassero il ‘confezionamento’ del dramma. Il copione è stato infatti elaborato strada facendo: all’inizio lo spettacolo durava 2 ore e 45 minuti, oggi, per arrivare a 2 ore soltanto, dobbiamo fare le corse in scena. È infatti uno show molto fisico, direi ‘muscolare’, atletico, soprattutto perché abbiamo parrucche e vestiti molto pesanti, tra l’altro ispirati alla nota versione cinematografica realizzata da Zeffirelli con protagonisti la coppia di divi Burton-Taylor. Per me, a 52 anni, arrampicarsi al terzo piano di una cassa, come è posta lì dalla scenografia in verticale, è anche quello un esercizio spericolato, ma comunque una sfida accolta e goduta con piacere”. Cosa c’è di Caterina in Nancy Brilli? E cosa può insegnare questo personaggio? “A non fare come lei. Di Bisbetiche ne abbiamo viste di tutte le salse. La mia Caterina è una che viene domata ma fino a un certo punto. Abbiamo in comune un flusso potentissimo di energia. Ma lì si dice a una donna che è fango. Così, prima le vengono tolte le cose superficiali, i vestiti, i giocattoli, i cappellini, poi i bisogni primari, il sonno e il cibo. Per me è inaccettabile la sottomissione, intesa con didatticismo edificante. Non è una polemica, erano altri tempi. Le lotte di emancipazione per la dignità e parità dei due generi ci insegnano che non esiste assoggettamento, nemmeno per amore, altrimenti si gioca alle parti di vittima e carnefice. Caterina è brillante, arguta, ostinata, ma mostra una sottile intelligenza nel tenere testa alla violenza di Petruccio. È chiaroscurale, una stoica che paga il prezzo di un’educazione troppo rigida, di ingiuste regole sociali che costringevano le donne ai matrimoni per interesse. Dalla collera alla risolutezza, il salto è immenso”. In che modo si spiega il passaggio da Bisbetica indomita a moglie domata? Caterina ha mica l’illuminazione improvvisa sulla via di Damasco? “L’addolcimento nel finale ha richiesto sforzi in più del previsto. Ci sono salti che non sono ben spiegati nel testo, la trasformazione da belva dell’inizio in Caterina remissiva della fine comporta un cambiamento profondissimo, strutturale, ma non è mai raccontato. Non sappiamo nemmeno in quanti giorni o mesi avvenga. A Shakespeare, a mio avviso, interessava più presentare una duplice visione dei fatti, femminista per alcuni versi e maschilista per altri. In effetti, tutta la pièce si gioca sul ‘doppio’: tutti sono una cosa, ma ne sono anche un’altra. Il ricco che si finge povero, il servo che si traveste da padrone, Petruccio da buono si dimostra un
arrogante, Bianca fa la morigerata e poi si svela una iena prepotente. Infinitesimali i livelli di lettura che si intrecciano”. Alla luce di tutto questo, in che modo riesce a risolvere l’impasse nel monologo finale? “Ogni volta
che lo recito, mi metto in gioco, mi spoglio. Caterina non esiste più, guardo in faccia il pubblico e mi rivolgo a lui in modo che capisca ciò che sto dicendo. Ma anche quello va preso con le pinze, per carità non vogliamo essere leziosi. Mettiamo in guardia il pubblico sulle false apparenze per dire che non sempre la sposa accondiscendente ai doveri è capace di amare veramente, e viceversa. A volte sento i loro commenti nel durante, quando polemizzano o quando sposano la mia causa, è un’emozione riflessa. L’unico fondo di verità di ciò che dico per voce di Shakespeare, c’est l’amour”. Qual è il suo rapporto con Napoli e come sta vivendo in questi giorni la città? “Portare uno spettacolo a Napoli non è cosa da niente. È una piazza con gusti parecchio difficili. La città la vivo da ‘amante’. Avevo iniziato facendo la turista, ma poi mi sono data alla militanza per portare le persone a teatro. Con questo mezzo espressivo si può comunicare anche ai giovanissimi, abbiamo avuto gruppi delle scuole medie. Il pubblico non è mai un fondale amorfo. Vive e collabora con noi. E se è bravo, partecipa e recepisce, la quarta parete crolla. E così siamo noi attori insieme a voi a stringere un patto d’amore, ma solo in quel momento, quando scatta la magia. Chiuso il sipario, la vita continua”.
Sa.Sa.
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