Tra progress test e didattica ordinaria a Medicina. Da un lato l’approccio più o meno agevole a una prova, tenutasi il 15 novembre, identica per tutti gli studenti dal terzo anno in poi (a cambiare è la soglia minima di risposte corrette per ritenere il test superato. La percentuale cresce all’aumentare dell’anno di corso). Dall’altro aspetti positivi e difficoltà emersi con la ripresa dei corsi. 150 domande a risposta multipla hanno caratterizzato il Progress test. Una tra queste ha fatto parlare di sé. Ai candidati è stato chiesto quali delle percentuali proposte rappresentasse “la migliore stima del verificarsi dell’omosessualità nell’uomo”. Diverse le opinioni degli studenti. Qualcuno, indispettito, ha commentato: “posta così, sembra che l’omosessualità sia quasi una malattia. A me ha dato molto fastidio”. Altri l’hanno affrontata diversamente. Uno studente: “all’inizio la domanda mi ha fatto storcere un po’ il naso, poi mi sono reso conto che si trattava di una domanda di Psicologia che ci poteva stare”. 180 i minuti a disposizione. Luigi, studente del terzo anno: “ovviamente non avevamo tutte le conoscenze per affrontarlo al meglio, ma non è andata male. Qualche problema in più ci sarà oggi con la parte clinica sulla quale non abbiamo nozione alcuna”. Con lui, Laura: “su Anatomia sono andata sul sicuro perché ci ho sbattuto molto la testa”. Sulla didattica di tutti i giorni, invece, afferma: “l’organizzazione di determinati esami potrebbe essere migliorata”. Un esempio: “Fisiologia. Passa anche un mese tra scritto e orale. Non si può portarselo dietro per così tanto”. Sul test, Ilaria: “non si può pretendere da noi che rispondiamo a domande su argomenti che vengono affrontati negli anni successivi. A mio avviso, un test uguale per tutti gli anni finisce per tradursi in una farsa”.
Nelle aule fa freddo
Da migliorare per la vita di tutti i giorni, il riscaldamento: “fa freddo, ma per il resto va abbastanza bene”. Un suo collega si sofferma su un altro aspetto: “il problema è l’aula studio, che non ha posti a sufficienza. Se si va a seguire la lezione, non c’è speranza di sedersi”. A distanza di un anno dalla prima volta con il progress test, si sente migliorata Francesca, al quarto anno: “non solo per gli argomenti in più che ho studiato, ma anche perché ho acquisito maggiore familiarità con la tipologia del test a risposta multipla”. Un suo compagno: “c’era qualche domanda che sembrava turco, ma in linea generale è sembrato fattibile. Fisiopatologia e genetica le materie in cui mi sono sentito più pronto”. Con loro, Carlo, che sottolinea un handicap delle lezioni quotidiane: “i materiali. Per un argomento spesso il libro non basta, serve integrarlo con appunti, sbobinature e materiali di altri anni. È complicato”. Un appunto anche sulle strutture che ospitano i corsi: “fa troppo freddo nelle aule, d’inverno studio con sciarpa e giubbotto”. Parla con entusiasmo dell’inizio del quarto anno Claudio: “è il primo anno in cui si segue di pomeriggio. I primi tre anni era un po’ come a scuola. Non solo mi sono adattato benissimo a questa organizzazione, ma la trovo anche preferibile. In passato a casa tornavo distrutto e con poca voglia di mettermi sui libri. Adesso, invece, vengo al Policlinico la mattina a studiare e il pomeriggio seguo”. L’unica pecca: “l’aula studio di Biotecnologie, dove studio di solito, chiude troppo presto”. Al quinto anno il nemico del progress test è la memoria che ha abbandonato esami studiati qualche anno prima. Davide: “Anatomia è stata più problematica. È una materia abbastanza mnemonica, quindi alcuni argomenti sono diventati arabo. C’era qualcosa sui tendini del pollice, una domanda troppo particolare per poter rispondere. Su fisiologia, biologia, genetica il discorso è diverso perché gli argomenti di quelle materie tornano spesso anche nelle altre discipline. Fisiologia si applica in quasi tutti gli esami successivi”. Alla voce aspetti da migliorare figurano i tirocini: “sono organizzati, ma nel concreto non vengono tenuti e quando vengono svolti non sono costruttivi. Si tratta di andare nei reparti, assegnati a un professore che, se si è fortunati, è disponibile, altrimenti diventa invisibile. In alcuni casi si viene trattati in maniera anche poco gentile. Molto più formative sono state le clinical rotation fatte l’anno scorso”. Una sua compagna di studi si sofferma sulle lezioni, motivando l’assenteismo in aula: “seguiamo solo il corso di interesse. I corsi sono organizzati male. In quelli suddivisi in più moduli, come le cliniche, non si segue un percorso preciso. Solo la mattina sappiamo chi è il docente che viene a fare lezione. Questo fa calare l’attenzione, perché non c’è continuità”. D’accordo con lei un’altra studentessa: “nel primo triennio c’era un filo logico tra le lezioni. Al secondo triennio, invece, spezzettando i corsi, la didattica diventa una sorta di successione di seminari. Solo alla fine si devono mettere insieme i pezzi e ricomporre il puzzle”. La gestione di impegni teorici e pratici e le modalità con le quali viene svolto in alcuni casi il tirocinio è al centro della riflessione di Stefano, del sesto anno: “la mattina dovremmo fare dei tirocini che funzionano o meno a seconda del professore a cui sei assegnato. Questo fa spostare le lezioni nel pomeriggio. Gli orari delle lezioni sono improponibili. Dormiamo sia noi sia i professori”. Con lui studia Simone: “servirebbe pensare all’organizzazione complessiva del corso, che tenga in considerazione tutti i nostri impegni. Ad esempio, tra una lezione e l’altra, a volte, occorre spostarsi tra edifici distanti anche un chilometro, ma non c’è tempo. Noi tendiamo a scappare dai corsi perché seguire significa non riuscire a preparare gli esami. In una giornata in cui bisogna stare dalle 8.30 alle 16 all’Università, formalmente senza pausa pranzo, è difficile comportarsi diversamente. Sono tutti aspetti che andrebbero pensati”.
Ciro Baldini