“Ho cominciato ad ascoltarla sotto al letto, per non farmi sentire da mamma. Musica rock e pop. Da allora non ho mai più smesso”. Vittorio Zucconi, giornalista e direttore di Radio Capital, racconta gli esordi del suo rapporto con la radio che, iniziato quando era poco più che bambino, prosegue con soddisfazione sua e dei suoi ascoltatori. Il 9 giugno era a Napoli per battezzare al Suor Orsola Benincasa il tour itinerante del live show radiofonico del Tg Zero di Radio Capital. Un’ora di fatti, analisi, dirette, polemiche, tormentoni e satira per commentare le notizie dell’attualità in coppia con Edoardo Buffoni. Il tour estivo del live show prosegue a Bologna – 16 e 17 giugno – e il 23 giugno si chiuderà ad Amatrice. La presenzadi Zucconi ha offerto al Suor Orsola
anche l’opportunità di presentare il nuovo bando del Master in Radiofonia,che è nato in collaborazione con alcune delle grandi aziende radiofoniche
del panorama nazionale, da Radio Capital a Radio M2o, le quali, insieme ad altri importanti network nazionali, al termine del Master ospiteranno gli per i loro stage, nelle diverse discipline. Zucconi, perché si continua ad ascoltare la radio nell’era di internet? “La radio non tramonta mai perché è l’unico mezzo che consente di avere un rapporto fisico e personale con chi parla. La rete è completamente impersonale, nonostante gli pseudo amici e la miriade di contatti che uno può avere. La televisione è invadente, ti opprime, ti salta addosso. La scrittura richiede concentrazione, non puoi leggere il giornale e intanto fare altro. La radio resiste e conquista sempre nuovi ascoltatori perché crea un legame vero, autentico tra chi ascolta e chi parla”. Come tra amici, tra persone che si conoscono? “Non saprei se è giusto dire questo, ma so che quello che distingue gli esseri umani è il linguaggio. Io ho scritto tantissimo, ma le persone che mi fermano in strada mi dicono che mi hanno riconosciuto dalla voce. In più – e non è una caratteristica da sottovalutare – si può ascoltare la radio anche in sottofondo. Non è un mezzo che si impone, prepotente. È un mezzo discreto, eppure di straordinaria efficacia”. C’è ancora spazio, nell’epoca dei social e di facebook, per il giornalismo? “Oggi il giornalista non dà più notizie, perché le hanno tutti ormai. Se scoppia una bomba a Londra, incrociando le dita, lo si viene a sapere in tempo reale perché ci saranno migliaia di persone con i cellulari che faranno circolare l’evento sui social. Le immagini del luogo, la polizia, la folla e quant’altro. Premesso questo, io non credo che sia un mestiere destinato a scomparire, inutile, annullato dal flusso continuo di notizie”. Perchè? “Il giornalista, oggi, è chi, nel raccontare un evento noto a tutti, riesce a stabilire con chi legge, ascolta o guarda, un rapporto di credibilità diretta. Io ho sempre immaginato, quando ho scritto un pezzo, che ci sarebbe stata una persona fisica in carne ed ossa a leggermi. Non un lettore anonimo, non un numero, ma una signora con il giornale in mano sul tram, un uomo seduto ad un bar. Per quel signore e per quella signora io dovevo rappresentare una fonte informativa attendibile, credibile e seria. Oggi che il flusso di informazioni è così costante e continuo, credo che questo discorso sia ancora più valido che in passato. Insomma, le regole restano quelle classiche, anche nell’era di internet, dei video e della velocità esasperata. Pluralità di fonti, controllo incrociato delle stesse, cercare di stare sul posto, perché se devo raccontare un fatto è meglio che io lo abbia osservato
di persona, piuttosto che ascoltarlo da uno che c’era per poi raccontarlo, a mia volta, a chi mi leggerà. Ciò detto, il nostro è anche un mestiere in cui capita di sbagliare”. Quale è l’errore imperdonabile per un giornalista? “Scrivere il falso con la coscienza di avere scritto il falso. O per carriera o per attaccare il somaro dove vuole il padrone. Un bravo giornalista fa mille errori e qualche volta gli sbagli fanno bene, aiutano a migliorare. Io ho scritto moltissime cose non vere nella mia vita, ma mai perché mi faceva comodo o perché faceva comodo a qualcun altro”. Cosa consiglierebbe ad un giovane che intraprende ora i primi passi nel suo mestiere? “Un sano disincanto. Quando si comincia – forse è giusto anche che sia così – si immagina che il giornalista sia il grande editorialista o l’inviato di punta. È un lavoro, invece, che è fatto molto e soprattutto di rematori. Il disincanto iniziale aiuta ad evitare delusioni e sconforto. Naturalmente non sto dicendo che un ragazzo non debba sognare e sperare nel meglio. Sto sottolineando, però, che mitizzare questo mestiere non aiuta ad affrontare, poi, le difficoltà che inevitabilmente ci si troverà sulla strada. Se uno parte con un po’ di disincanto, poi apprezza di più le tantissime cose belle che offre il lavoro di giornalista, sia che lo si svolga in un grande quotidiano o in una tv nazionale, sia che lo si pratichi in un giornale di provincia o in una tv locale”. È in salute la libertà di informazione in Italia o nota segnali preoccupanti? “Un mio vecchio collega, Giovanni Giovannini, diceva che in Italia pochissimi giornalisti testano il confine della propria libertà di informazione. Tutti tendiamo a fermarci prima. Non è questione di oggi, voglio dire”. Per quale motivo? “Le condizioni generali nelle quali lavoriamo sono sfavorevoli alla libertà di stampa. Abbiamo una classe politica che mente. Tutta. Abbiamo
sempre paura di dare fastidio. La verità è che non può esserci una stampa più libera di quanto lo sia il paese in cui lavorano i giornalisti. Questo come discorso generale, come riflessione di sistema. Il che, naturalmente, non esime ciascuno di noi, ogni giornalista, dal fare del suo meglio per essere libero, critico ed indipendente. È uno sforzo da compiere per i lettori e nel rispetto di quelli che, facendo questo mestiere, hanno perso la vita. Al sud – e non serve certo che lo ricordi a chi lavora a Napoli – e nel resto del Paese. Sono stato compagno al liceo di Walter Tobagi, il giornalista che fu assassinato negli anni di piombo”. Il suo rapporto con Napoli? “È una città che ho sempre amato e che mi ha sempre affascinato. Oggi, poi, nel capoluogo campano abbiamo uno dei pubblici più calorosi d’Italia ed è molto importante per noi trasmettere in diretta dagli spazi di un’università, a contatto con gli studenti e i giovani, in particolare in un Ateneo dove si formano i giornalisti radiofonici e i professionisti della radio di domani”.
anche l’opportunità di presentare il nuovo bando del Master in Radiofonia,che è nato in collaborazione con alcune delle grandi aziende radiofoniche
del panorama nazionale, da Radio Capital a Radio M2o, le quali, insieme ad altri importanti network nazionali, al termine del Master ospiteranno gli per i loro stage, nelle diverse discipline. Zucconi, perché si continua ad ascoltare la radio nell’era di internet? “La radio non tramonta mai perché è l’unico mezzo che consente di avere un rapporto fisico e personale con chi parla. La rete è completamente impersonale, nonostante gli pseudo amici e la miriade di contatti che uno può avere. La televisione è invadente, ti opprime, ti salta addosso. La scrittura richiede concentrazione, non puoi leggere il giornale e intanto fare altro. La radio resiste e conquista sempre nuovi ascoltatori perché crea un legame vero, autentico tra chi ascolta e chi parla”. Come tra amici, tra persone che si conoscono? “Non saprei se è giusto dire questo, ma so che quello che distingue gli esseri umani è il linguaggio. Io ho scritto tantissimo, ma le persone che mi fermano in strada mi dicono che mi hanno riconosciuto dalla voce. In più – e non è una caratteristica da sottovalutare – si può ascoltare la radio anche in sottofondo. Non è un mezzo che si impone, prepotente. È un mezzo discreto, eppure di straordinaria efficacia”. C’è ancora spazio, nell’epoca dei social e di facebook, per il giornalismo? “Oggi il giornalista non dà più notizie, perché le hanno tutti ormai. Se scoppia una bomba a Londra, incrociando le dita, lo si viene a sapere in tempo reale perché ci saranno migliaia di persone con i cellulari che faranno circolare l’evento sui social. Le immagini del luogo, la polizia, la folla e quant’altro. Premesso questo, io non credo che sia un mestiere destinato a scomparire, inutile, annullato dal flusso continuo di notizie”. Perchè? “Il giornalista, oggi, è chi, nel raccontare un evento noto a tutti, riesce a stabilire con chi legge, ascolta o guarda, un rapporto di credibilità diretta. Io ho sempre immaginato, quando ho scritto un pezzo, che ci sarebbe stata una persona fisica in carne ed ossa a leggermi. Non un lettore anonimo, non un numero, ma una signora con il giornale in mano sul tram, un uomo seduto ad un bar. Per quel signore e per quella signora io dovevo rappresentare una fonte informativa attendibile, credibile e seria. Oggi che il flusso di informazioni è così costante e continuo, credo che questo discorso sia ancora più valido che in passato. Insomma, le regole restano quelle classiche, anche nell’era di internet, dei video e della velocità esasperata. Pluralità di fonti, controllo incrociato delle stesse, cercare di stare sul posto, perché se devo raccontare un fatto è meglio che io lo abbia osservato
di persona, piuttosto che ascoltarlo da uno che c’era per poi raccontarlo, a mia volta, a chi mi leggerà. Ciò detto, il nostro è anche un mestiere in cui capita di sbagliare”. Quale è l’errore imperdonabile per un giornalista? “Scrivere il falso con la coscienza di avere scritto il falso. O per carriera o per attaccare il somaro dove vuole il padrone. Un bravo giornalista fa mille errori e qualche volta gli sbagli fanno bene, aiutano a migliorare. Io ho scritto moltissime cose non vere nella mia vita, ma mai perché mi faceva comodo o perché faceva comodo a qualcun altro”. Cosa consiglierebbe ad un giovane che intraprende ora i primi passi nel suo mestiere? “Un sano disincanto. Quando si comincia – forse è giusto anche che sia così – si immagina che il giornalista sia il grande editorialista o l’inviato di punta. È un lavoro, invece, che è fatto molto e soprattutto di rematori. Il disincanto iniziale aiuta ad evitare delusioni e sconforto. Naturalmente non sto dicendo che un ragazzo non debba sognare e sperare nel meglio. Sto sottolineando, però, che mitizzare questo mestiere non aiuta ad affrontare, poi, le difficoltà che inevitabilmente ci si troverà sulla strada. Se uno parte con un po’ di disincanto, poi apprezza di più le tantissime cose belle che offre il lavoro di giornalista, sia che lo si svolga in un grande quotidiano o in una tv nazionale, sia che lo si pratichi in un giornale di provincia o in una tv locale”. È in salute la libertà di informazione in Italia o nota segnali preoccupanti? “Un mio vecchio collega, Giovanni Giovannini, diceva che in Italia pochissimi giornalisti testano il confine della propria libertà di informazione. Tutti tendiamo a fermarci prima. Non è questione di oggi, voglio dire”. Per quale motivo? “Le condizioni generali nelle quali lavoriamo sono sfavorevoli alla libertà di stampa. Abbiamo una classe politica che mente. Tutta. Abbiamo
sempre paura di dare fastidio. La verità è che non può esserci una stampa più libera di quanto lo sia il paese in cui lavorano i giornalisti. Questo come discorso generale, come riflessione di sistema. Il che, naturalmente, non esime ciascuno di noi, ogni giornalista, dal fare del suo meglio per essere libero, critico ed indipendente. È uno sforzo da compiere per i lettori e nel rispetto di quelli che, facendo questo mestiere, hanno perso la vita. Al sud – e non serve certo che lo ricordi a chi lavora a Napoli – e nel resto del Paese. Sono stato compagno al liceo di Walter Tobagi, il giornalista che fu assassinato negli anni di piombo”. Il suo rapporto con Napoli? “È una città che ho sempre amato e che mi ha sempre affascinato. Oggi, poi, nel capoluogo campano abbiamo uno dei pubblici più calorosi d’Italia ed è molto importante per noi trasmettere in diretta dagli spazi di un’università, a contatto con gli studenti e i giovani, in particolare in un Ateneo dove si formano i giornalisti radiofonici e i professionisti della radio di domani”.
Fabrizio Geremicca