È corretto parlare di ‘diritti dei detenuti’ all’interno delle carceri o è l’istituzione carceraria stessa una violazione della dignità dell’uomo? Se concediamo uno sguardo alle recenti notizie dei numerosi suicidi negli istituti penitenziari in Italia, è innegabile che sia una domanda ancora attuale. L’associazione IUS (Innovazione Universitaria Studentesca) del Dipartimento di Giurisprudenza ha provato a rispondervi, il 30 novembre presso la sede di Palazzo Pecoraro-Albani, attraverso l’esperienza di quattro ospiti che vivono e guardano all’istituzione carceraria da diverse prospettive.
“Il nostro ordinamento ha da molti anni abbandonato il concetto di pena come meramente preventiva, abbracciando piuttosto la funzione rieducativa”. Ma, affinché questo accada, “la privazione della libertà, che è conseguenza della pena, non deve essere mai accompagnata da una lesione dei diritti della persona”, afferma Clara Giurato, rappresentante degli studenti in Consiglio di Dipartimento, all’apertura del convegno. Poi la prof.ssa Francesca De Rosa, docente di Storia della Giustizia, ha contestualizzato il dibattito ed evidenziato come, nel corso della storia, non sia sempre stato questo l’approccio. “Si passa da un carcere che, fino al Settecento, in via preventiva conteneva anche innocenti in attesa di giudizio ad una meticolosa attenzione verso la certezza della colpa e della pena”, per arrivare nel Novecento, soprattutto con la legge Gozzini, del 1986, dove “si analizzavano le condizioni di vita e di comunità all’interno del carcere e vennero applicate discipline relative ai permessi, all’attivazione di Corsi di studio, attività ricreative e culturali”, ma “dobbiamo arrivare in epoca recente per parlare realmente di diritti in capo ai detenuti”. Nonostante i vari progressi, anche oggi esistono libertà costituzionalmente garantite che non sembrano, però, valere nel luogo delle carceri: la libertà di religione, ad esempio. “La pena non va vista solo in forma punitiva o preventiva, ma come un vero e proprio percorso di espiazione che insiste anche sulla trasformazione interiore”, afferma la prof.ssa Maria D’Arienzo, docente di Diritto Ecclesiastico e membro della Commissione interministeriale per le intese con le Confessioni religiose. “Mentre la presenza di ministri di culto cattolici all’interno delle carceri è prevista, riconosciuta e pagata dallo Stato, per le altre confessioni religiose è possibile l’accesso solo su richiesta dei detenuti e previa autorizzazione dell’ufficio degli affari di culti del Ministero degli interni”. Ciò costituisce un ostacolo per i detenuti, ad esempio, di fede islamica, per i quali non è tanto necessaria la presenza di officianti quanto quella di un’assistenza spirituale, non prevista da nessuna normativa. “Il problema della tutela dei diritti, soprattutto la libertà religiosa, è che deve essere bilanciata con la questione della sicurezza” per cui, nonostante l’esercizio completo della fede religiosa sia sempre reso possibile, sussistono ugualmente dei limiti. Questo perché parlare di religione significa non solo poter pregare, ma anche poter seguire i precetti riservati alla vita quotidiana, come ad esempio un regime alimentare specifico o un abbigliamento che prevede dei simboli religiosi, come copricapi. “Tutti questi elementi hanno portato alla luce una specificità della libertà in materia religiosa, che non è solo la libertà di credere, ma anche quella di vivere secondo i valori religiosi, che strutturano l’identità di ciascuno e dunque il senso della dignità dell’uomo, che è data dal poter essere fedele a sé stesso”. Un diritto che, anche in una struttura carceraria, per quanto sanzionatoria, “non può essere mai compresso da alcuno”. Tutte queste limitazioni rendono perplessi anche gli stessi ministri di culto, come emerge dalla testimonianza di Don Franco Esposito, Direttore dell’Ufficio per la Pastorale Carceraria e Cappellano presso il Carcere di Poggioreale, per il quale “non esistono i tanti problemi del carcere, perché è il carcere ad essere il problema”. Citando Dostoevskij, afferma che “la civiltà di una nazione si misura dalla civiltà delle sue carceri” e, per quanto riguarda l’Italia, non può che descrivere la situazione come “deprimente e fallimentare”. “Noi andiamo in carcere non per i detenuti, ma con i detenuti”, continua dissociandosi da un’istituzione che definisce “contro l’uomo, poiché nasce per limitarne le libertà e, pertanto, anche anti-cristiana”. Dalla religione, afferma, “i detenuti si aspettano di respirare aria che non sia aria del carcere, di parlare con qualcuno” ed è una presenza che “deve farsi ponte, altrimenti è sterile come tante altre figure”, poiché in carcere “tutto c’è e tutto non c’è”, alludendo ad esempio al diritto al cibo o all’educazione, effettivamente esistenti, per i quali “su 200 euro che lo Stato spende per i detenuti, 3 euro vanno per colazione, pranzo e cena e 50 centesimi al giorno per il trattamento educativo”. “L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente”, continua Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania, “il carcere è ormai un contenitore di marginalità sociale. È diventato una risposta semplice a bisogni complessi”, alludendo al fatto che, oggi, anche i reati minori guardano subito al carcere come risposta.
“La pena deve far uscire il senso di colpa del male fatto”
I provvedimenti recenti in materia trovano il disaccordo anche della dott.ssa Maria Luisa Palma, Direttore della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, in particolare per quanto riguarda il Decreto Legge del 31 ottobre 2022, che ha revocato alcuni permessi già concessi ai detenuti per Natale e a superficiali limitazioni nel contenuto dei pacchi che arrivano da fuori. “Il carcere deve tendere a rieducazione e reinserimento, non tortura e privazione della dignità umana”. Un’opportunità che il carcere può dare è “far venir fuori il volersi bene, cosa che tante volte i detenuti non hanno più e per questo si trascurano. Bisogna insegnare la cura del sé” e per questo è stata istituita la convenzione con AthenaDonna, che si occupa di sanità al femminile per persone con disagi, con l’obiettivo di “creare gruppi che si sostengano a vicenda”. Non rimanere da soli fa sì che ci si possa davvero aprire al mondo e maturare quel senso di consapevolezza che porta i detenuti a “non essere più la persona per causa della quale sei entrato”: questo è il vero obiettivo del carcere per il dott. Carmelo Musumeci. Condannato nel 1991 all’ergastolo ostativo, deportato nell’isola dell’Asinara e sottoposto al regime del 41 bis, durante il quale ha trascorso un anno e sei mesi blindato, isolato e in condizioni igieniche disumane, oggi è un uomo libero, che ha conseguito ben tre lauree. Sa, però, di essere un’eccezione: la maggior parte degli ergastolani muore in carcere, il 70% dei detenuti che escono vi rientra (il che vuol dire che la detenzione “non è la medicina ma la malattia”) e il 30% che non rientra “è perché ha paura, non perché è diventato una persona migliore”. Per funzionare, “la pena deve farti uscire il senso di colpa del male che hai fatto. Il carcere non lo fa: te ne dimentichi perché pensi al male che ricevi tutti i giorni. Il senso di colpa non me lo ha fatto venire il carcere, ma le relazioni e la conoscenza del bene, che in carcere manca”. È allora importante che entri affetto ma soprattutto i libri, non consentiti dal regime del 41 bis: “il carcere è terrorizzato dal prigioniero che studia, legge e scrive. Scrivendo, mi ero aperto alla società, volevo far conoscere l’inferno delle nostre patrie galere. Vi immaginate uno Stato che ha paura dei libri? Dovrebbero obbligarci a leggere. Noi siamo quello che leggiamo. Leggendo si vive la vita degli altri e si migliora la propria”.
Giulia Cioffi