Giacinto, 26 anni, studente in Fisica astroparticellare, divulgatore a Pint of Science
Nel 2012 Michael Motskin e Praveen Paul, due ricercatori all’Imperial College di Londra, danno vita ad un evento chiamato “Meet the researchers” (Incontra i ricercatori): alcuni malati di Parkinson, Alzheimer, malattia del motoneurone e sclerosi multipla entrano nei loro laboratori per vedere quale tipo di ricerca conducono. L’esperimento riesce e gratifica sia chi lo ha proposto, sia chi vi ha partecipato. I due ne parlano, si confrontano e si chiedono: se le persone vogliono entrare nei laboratori e incontrare i ricercatori, perché non portare i ricercatori fuori ad incontrare le persone? Nasce “Pint of Science”, una iniziativa di divulgazione scientifica su vari temi – dalla medicina alla biologia, dalla chimica alla fisica, solo per citarne alcuni – che si svolge nei bar e nei pub.
Una pinta di scienza, appunto, da sorseggiare preferibilmente con un bicchiere di birra. A maggio 2013 si tiene la prima edizione. Quella del 2023 si è svolta in ventisei Paesi nel mondo di vari continenti. In Italia in venti città. A Napoli la coordinatrice è stata Arianna Massaro, dottore di ricerca in Chimica, che si descrive sulla pagina ufficiale Pint of Science in questi termini: “Amo parlare di scienza perché mi fa sentire in contatto con il mondo, meglio ancora se con una birra in mano!”. Tra i giovani i quali hanno messo passione, competenze ed energie a Napoli per l’iniziativa, che si è svolta il 23 maggio, c’è Giacinto Boccia, un ragazzo di 26 anni.
È nato a Roma, vive a Napoli dal 2006 e frequenta il Corso di Laurea Magistrale in Fisica, con indirizzo in fisica astroparticellare e subnucleare. “Ho aderito all’iniziativa – racconta – perché una mia collega me ne aveva parlato. Abbiamo scelto un bar in via Pasquale Scura, nel centro di Napoli, uno di quelli dove andavamo io e la mia collega presentatrice della serata. Il gestore è stato contento ed ha accettato la proposta. Era per un martedì sera, d’altronde, uno di quei giorni nei quali solitamente nei locali non si registra il pienone, che avrebbe reso più complicata l’organizzazione della serata”.
La camera a nebbia
Giacinto si è poi rivolto alla prof.ssa Mariagrazia Alviggi, che ha il laboratorio di Fisica delle particelle. “Noi astroparticellari – apre una parentesi lo studente – ci dividiamo in due grandi partiti. C’è quello più interessato all’analisi dei dati e quello più interessato ai rilevatori di particelle. Io appartengo senza dubbio alla seconda categoria e per questo ho chiesto alla prof.ssa Alviggi se poteva mettermi a disposizione per la serata del 23 maggio, che tra l’altro era sostenuta e sponsorizzata anche dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), una camera a nebbia del laboratorio didattico. Strumento già utilizzato da uno studente per la sua tesi di laurea. Siamo andati al mattino a prendere il ghiaccio secco e poi abbiamo portato al bar la camera a nebbia”.
Urge, a questo punto, un chiarimento per chi di Fisica sa poco o nulla e potrebbe restare confuso dall’associazione tra l’ingrediente che si metteva una volta nelle confezioni dei gelati affinché restassero freddi durante il tragitto dal gelataio a casa e uno strumento per lo studio delle particelle. Se ne fa carico, ovviamente, Boccia: “La camera a nebbia era un oggetto fondamentale nella prima metà del Novecento. Ora è obsoleto per la ricerca avanzata, ma a fini divulgativi è prezioso: permette di vedere ad occhio nudo la traiettoria di una particella o di una radiazione ionizzante”.
Come funziona? “La camera a nebbia è fondamentalmente un contenitore a tenuta d’aria riempito con una mistura di aria e vapore d’alcool. L’alcool liquido evapora da un serbatoio e si diffonde attraverso l’aria della camera. Si raffredda la base con il ghiaccio secco e succede che, andando verso il basso, l’alcool condensa. In questo contesto le particelle diventano visibili perché lasciano una scia di nebbia lungo il percorso ed è possibile osservarla. Possono essere scie più spesse se la particella ha ionizzato di più ed in questo caso possiamo sospettare un raggio alfa. Un elettrone ha scie più curve, con irregolarità nella traiettoria. Le scie dei raggi cosmici possono essere più difficili da osservare per l’occhio non allenato”.
L’esperimento si è svolto nella seconda parte della serata. “Prima di me – ricorda lo studente – ha parlato un ricercatore della stazione zoologica Dohrn di Napoli, che, come noto, si occupa di ricerca nell’ambito della Biologia marina. Ci siamo assortiti bene perché il suo intervento riguardava i meccanismi di adattamento degli organi visivi di alcune creature alle condizioni di scarsa luminosità degli ambienti marini profondi. In qualche modo mi è parso che quelle strategie possano essere paragonate agli sforzi della scienza di dare una percezione delle particelle fondamentali che sono sfuggenti e che devono essere costrette a manifestarsi. Proprio come accade nella camera a nebbia”.
Prosegue: “Mentre il ricercatore della Dohrn rispondeva alle domande, io ho allestito la strumentazione. Ho cominciato cercando di raccontare brevemente al pubblico – una ventina di persone, soprattutto giovani e una buona presenza di studenti – perché ci fosse tale strumentazione e come si fosse arrivati ad essa. Alla fine ho lasciato anche io spazio alle domande ed ho premiato quella che mi è parsa più interessante e riguardava i positroni. La persona che me l’ha posta ha ricevuto una maglietta che aveva da un lato il logo dello INFN e dall’altro l’immagine di un tardigrado che beve da un bicchiere con una cannuccia”.
I tardigradi sono piccoli invertebrati acquatici celebri per la loro capacità di resistenza alle condizioni più estreme. Secondo chi li studia possono sopravvivere fino a trent’anni senza cibo ed acqua. Ma torniamo alla serata del 23. “Ho partecipato – dice Boccia – perché penso che quello di cui mi voglio occupare nella vita sia tra le cose più belle al mondo e mi dà gioia provare a raccontarlo agli altri. Descrivere e spiegare con chiarezza cosa fanno i Fisici e come rispondono alla curiosità dell’uomo di conoscere la realtà aiuta anche a far comprendere il motivo per il quale si spendono risorse ed energie per strumenti come i rilevatori di particelle”.
Naturalmente, come sempre accade quando si parla in pubblico, c’è anche un po’ di rammarico per quel che si sarebbe voluto fare e non si è riusciti a realizzare. “Avrei voluto portare a conclusione – ammette lo studente – un discorso più dettagliato sui vari tipi di radiazioni ionizzanti che possiamo rivelare. Ad ogni modo, credo che chi era ad ascoltarmi abbia potuto intuire di cosa si tratta e perché ce ne occupiamo. Questo era il senso dell’iniziativa. Io sono una persona appassionata ed altro non desidero se non convincere un altro essere umano di quanto sia grande la mia passione”.
Cosa vorrebbe fare Boccia dopo che avrà discusso la tesi di Laurea Magistrale? “Mi piacerebbe, ovviamente, praticare ricerca nel campo della Fisica delle particelle. È stato l’argomento della mia tesi triennale. Mi piace il tipo di visione che richiede: bisogna muoversi in un punto d’incontro tra varie conoscenze per mettere insieme un esperimento. Cercherò di fare questo perché quando vado in laboratorio a fare la seduta sto bene. Mi piace la strumentazione, capirne il funzionamento. Sono felice lì dentro e mi dimentico perfino del caldo. Eh sì, perché in laboratorio fa proprio un gran caldo”.
Fabrizio Geremicca