L’attore e regista Edoardo Leo presenta agli studenti il suo nuovo film: una rilettura dell’Otello di Shakespeare

Un protagonista profondamente insicuro, che non si sente all’altezza della donna che ha sposato. Un amico poco sincero, che si insinua tra le sue fragilità suscitandogli il dubbio che la moglie lo stia tradendo. Un femminicidio efferato come risposta a una gelosia dirompente, specchio di un impetuoso malessere interiore, che fa calare il sipario sulla vicenda. Potrebbe essere un caso di cronaca dei giorni nostri, il sunto di un articolo di giornale di quindici anni fa, la trama di un film o una tragedia di Shakespeare.
In realtà, è esattamente tutte queste cose. È il 21 ottobre e siamo all’Università Parthenope, nella sede di Palazzo Pacanowski: il luogo prescelto per la tappa napoletana della tourneé dell’attore e regista romano Edoardo Leo, in giro per le università italiane per raccontare ai ragazzi il suo nuovo film ‘Non sono quello che sono’, in uscita nelle sale il 14 novembre.
Intervistato dalla giornalista di Repubblica Ilaria Urbino, in dialogo con il Rettore Antonio Garofalo, la prof.ssa Marilù Ferrara del CUG (Comitato Unico di Garanzia) e la prof.ssa Raffaella Antinucci, docente di Letteratura inglese, racconta un lavoro durato quindici anni di cui è autore, regista e attore: una ripresa integrale, dal primo all’ultimo verso e con un’elaborata traduzione in dialetto romanesco e napoletano, dell’Otello di William Shakespeare: “Una storia scritta nel 1604, che riesce ancora a raccontarci il presente e a raccogliere tante storie di prevaricazione. Nella sinossi, è molto simile ad un articoletto di giornale che ho letto quindici anni fa, quando i femminicidi non erano in prima pagina e neanche si chiamavano così. Da lì ho deciso di fare questo film”.
Perché tutto ciò, e soprattutto perché ripartire dalle università? “Vi guardo, vedo le vostre facce e so che state sognando di fare qualcosa della vostra vita. E so anche che c’è almeno una ragazza, proprio in quest’aula, in questo momento, che sta vivendo una relazione tossica, che è sotto schiaffo di qualche uomo patriarcale e maschilista. Lo so per certo perché è statistica”. È davvero statistica: il rapporto del 2020 dell’ISTAT afferma che il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (parliamo di 6 milioni e 788 mila ) ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.
Violenza che viene – come emerge fin da subito da alcune clip che vengono proiettate – portata sul grande schermo “come un cazzotto nella pancia, in maniera spietata, senza edulcorarla e senza lasciare scampo. In molti film la percepiamo come lontana, ed è questo che genera il meccanismo imitativo: la mancata percezione del pericolo. Ma quando fai vedere quanto tempo ci mette una donna a morire vessata è qualcosa che ti sciocca, che ti dà fastidio. Quando la violenza al cinema è molto forte, quando percepisci il dolore in maniera pesante, il sentimento che sviluppi è l’opposto: distacco”.
In questo sta l’innovazione di Leo rispetto al classico shakesperiano: non intervenire sul testo, che è già perfettamente attuale così com’è, ma riempire con la sua penna quei “non detto”, le pause, le azioni che incorniciano il dialogo: “A teatro Desdemona – moglie di Otello – muore in quattro secondi, con un cuscino sulla faccia. Io volevo mostrare la violenza di quel femminicidio, che non è teatrale, e infatti nel film è una scena faticosa da vedere, perché l’ho prolungata a lungo”.
Così come la scena del ritrovamento di un fazzoletto che verrà utilizzato come prova del presunto tradimento di Desdemona. Lo recupera Emidia, sua dama di compagnia e moglie di Iago, l’amico di Otello che, per tutta la durata della storia, pizzica i suoi punti deboli e lo porta a ripudiare con violenza la moglie. Iago (interpretato da Edoardo Leo) non è la violenza diretta, ma tutto ciò che le ruota attorno: il modo di pensare, la mentalità patriarcale, il pregiudizio sociale… rappresenta un po’ il modo in cui la società, e quindi noi, parla della violenza, delle donne e delle relazioni.
In questa scena il pathos è estenuante: Iago avvolge il viso di Emidia nel velo e la bacia. “È l’unico momento in cui Iago bacia Emidia in tutto il film: quando la cancella, quando le chiude la faccia nel velo. La bacia senza vederla. Cancella la sua identità. Questa è la riscrittura”. “La gelosia è un mostro dagli occhi verdi che sputa nel piatto in cui mangia”: così Edoardo Leo traduce e ci restituisce il più celebre verso di questa tragedia, diventato ormai, nella lingua inglese, la perifrasi per antonomasia per riferirsi a questo sentimento.
In italiano, invece, c’è ancora un problema irrisolto sul linguaggio, quando si parla di femminicidio: “Abbiamo un termine unico per sentimenti lontanissimi tra loro e su questo ci caschiamo tutti. Chiamiamo gelosia ogni cosa, senza declinazioni: provare un senso di sofferenza perché abbiamo paura che una persona possa lasciarci possiamo chiamarlo gelosia; se una ragazza torna a casa e un uomo la mena perché suppone abbia fatto qualcosa, comunque lo chiamiamo ‘gelosia’, ma sono due cose ben diverse”.
Nell’educazione delle persone le parole hanno un ruolo primario: conoscerne quante più possibili permette di decifrare i propri sentimenti, di avere un vocabolario emotivo, e da ciò bisogna ripartire per affrontare la questione delle questioni, secondo il regista: “Abbiamo un problema di educazione emotiva dei maschi: non c’è altro modo per risolverlo se non aiutarli a sviluppare la propria gentilezza, senza dirgli che quando entrano in contatto con la loro parte fragile quella è la loro parte femminile. Continuiamo ad associare la donna al concetto di debolezza”.

Il monologo di Franca Rame

L’incontro si chiude sulla scia della riflessione sul valore delle parole per rispondere ad una domanda che spesso l’opinione pubblica si pone, in maniera diffidente, quando esce un caso di violenza: perché non ha denunciato? La risposta di Edoardo Leo arriva con la lettura di un monologo: è la storia di Franca Rame, attrice che nel 1973 fu brutalmente stuprata da un gruppo di militanti dell’estrema destra fascista come spedizione punitiva per le sue lotte operaie.
Nel 1975, quando uno stupro per una donna era socialmente additato come una vergogna, una macchia sulla sua purezza, e non se ne doveva assolutamente parlare, tenne un monologo in cui, per quindici minuti di fila, raccontò senza omissioni tutto ciò che le era stato fatto quella sera. Al termine della violenza, stordita e umiliata, si ritrova davanti alla Questura.
Fa per entrare, ma poi ci ripensa: “Li denuncerò domani. Sapete perché? – incalza Edoardo – Sapete perché ancora oggi tante donne non riescono a denunciare? Leggiamo il documento della fase istruttoria del processo, leggiamo le domande che le fecero in aula: il medico che la visitò le chiese se durante l’aggressione avesse provato solo disgusto o anche un discreto piacere; il poliziotto che aveva raccolto la denuncia le chiese se non si fosse sentita lusingata che così tanti uomini la desiderassero tanto; il giudice le domandò se era rimasta sempre passiva o se, ad un certo punto, avesse partecipato, e arriviamo all’avvocato della controparte, che nella sua arringa finale afferma: se questa ragazza l’avessero tenuta presso il caminetto, non sarebbe successo niente”.
Giulia Cioffi
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Ateneapoli – n.17 – 2024 – Pagina 26

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