Claudia Brignone: raccontare per immagini la complessità dell’umanità

Claudia Brignone è una regista, produttrice, scrittrice e fotografa che da nove anni costruisce, attraverso il documentario, un racconto delicato e potente del mondo che ci circonda. Con tre film all’attivo – La malattia del desiderio (2014), La Villa (2019) e Tempo d’attesa (2023) – ha saputo dare voce a storie marginali, rendendole universali. I suoi lavori attraversano le fragilità dell’umano, intrecciandole con il senso profondo della comunità.

Il suo percorso comincia all’Università Suor Orsola Benincasa, dove si iscrive a Scienze della Comunicazione, in uno dei primi anni in cui il Corso viene attivato. “L’ho scelto perché volevo scrivere, fare giornalismo”, racconta. Ma presto capisce che le dinamiche di quel mondo le stanno strette, non fanno per lei. Decide così di prendersi una pausa di riflessione, dedicarsi ad attività più pratiche, fino a proseguire gli studi con la Specialistica in Imprenditoria e Creatività per Cinema, Teatro e Televisione.

Il punto di svolta arriva con la tesi di laurea, realizzata sotto la guida del professore – regista Ugo Gregoretti. Un progetto personale e intenso, in cui Claudia sceglie di raccontare storie di dipendenze. È così che scopre il Sert, un servizio per le tossicodipendenze nel quartiere Fuorigrotta, a Napoli. La possibilità di realizzare un progetto pratico la spinge a mettersi in gioco, a scendere in strada con una telecamera e iniziare a lavorare con le immagini. Un’esperienza che segna l’inizio del suo vero cammino.

Non è l’unico incontro determinante. Fuori dall’ambiente accademico, arriva quello con il regista Leonardo Di Costanzo, che riconosce in lei un talento autentico, incoraggiandola a credere nella sua visione. Inizia così a maturare la consapevolezza di poter trasformare una sensibilità personale in mestiere. “Mi disse: ‘Claudia, hai un accesso speciale a questo luogo’”, ricorda. Una frase che porterà sempre con sé.

Napoli diventa fin da subito una presenza imprescindibile nei suoi lavori. Non è solo uno scenario, ma una lente attraverso cui leggere le relazioni, i gesti, le sfumature non dette. Lavorare in un luogo che le appartiene le permette di muoversi con naturalezza, di cogliere prima ciò che accade. Per lei, il documentario è un processo di attenzione, in cui l’imprevedibilità va abbracciata, non controllata. Non c’è sceneggiatura, ma ascolto. Non c’è direzione forzata, ma movimento condiviso. Nel suo elaborato di tesi l’approccio è ancora timido. Si avvicina alle storie con rispetto e una certa paura.

Non aveva mai avuto un rapporto così diretto con persone che vivevano una sofferenza profonda. All’inizio, le immagini erano solo frammenti: pezzi di corpi, dettagli. Ma presto si rende conto che ciò che la colpisce davvero è l’umanità piena di quei volti, di quei racconti. Il primo film, La malattia del desiderio, prende forma da questa necessità di restituire dignità, di far emergere la complessità intera delle vite incontrate. “La tesi è stata decisiva, ma lo è stato ancora di più il passo che ho fatto dopo: portare quel materiale a chi questo mestiere lo fa davvero”. Claudia sottolinea quanto sia cruciale il confronto con i professionisti: “È un mestiere artigianale. A volte basta bussare a una porta, avere il coraggio di chiedere: cosa pensi delle mie immagini?”.

Nel 2019 realizza La Villa, una riflessione su come raccontare Scampia senza tradirne la complessità. Il punto di partenza è sempre la realtà, ma ciò che fa la differenza è il modo in cui viene raccontata. Non c’è una ricerca del bello, ma uno sguardo che attraversa luci e ombre senza negarle. Il contesto resta lo stesso, ma è l’angolatura a mutare. Così si costruisce una narrazione che non offre risposte immediate, ma apre alla riflessione. Il rapporto con il quartiere e con le associazioni del territorio diventa parte integrante del lavoro.

La regista non si limita a osservare, ma vive i luoghi e le persone che racconta. È in quel contesto che nasce la domanda: perché dobbiamo raccontare solo il brutto o solo il bello? Perché non provare a far convivere entrambi? Un’ispirazione arriva da un bambino che la accompagna nel parco: è lui a riaccendere in lei uno sguardo di meraviglia, a suggerire che anche in un quartiere complesso, la natura può brillare, diventare filtro di bellezza.

È sempre un’esperienza personale, invece, a generare Tempo d’attesa, il suo terzo documentario. In procinto di diventare madre, Claudia inizia a interrogarsi sul parto, su come questo momento venga rappresentato, temuto, vissuto. Partecipa a cerchi di donne guidati da ostetriche, dove il confronto è libero e profondo. E, ancora una volta, sceglie le immagini per dare voce a pensieri, paure, riflessioni. Il film nasce dalla volontà di rompere l’idea collettiva che tende ad associare il parto solo a dolore e difficoltà. “Volevo decostruire quell’immaginario comune, mostrare che esiste anche un parto bello”.

Il film è un invito, rivolto soprattutto alle giovani donne: “Se avessi potuto vedere un film così quando ero nell’età dell’immaginare, credo che la mia paura e la mia percezione sarebbero state diverse”.
La firma di Claudia Brignone nei suoi lavori è inconfondibile: la relazione tra l’individuo e la comunità. Per lei, raccontare una persona senza tener conto del contesto che la accoglie o la forma non ha senso, perché dichiara: “da soli non andiamo da nessuna parte”.

Ma il suo sguardo è già proiettato al futuro. Il nuovo progetto ruota attorno alla paternità, ancora una volta a partire da un’esigenza personale. L’immagine, ammette, è ancora sfocata: come sempre accade quando si è nel pieno del processo creativo. Ma sente il bisogno di esplorare la figura del padre: quello che avrebbe voluto avere, quello che vorrebbe ci fosse ancora. Un’indagine che si allargherà anche al passato, attraverso l’uso di materiale d’archivio, per osservare come questa figura si sia trasformata nel tempo. Dal padre assente in sala parto, al compagno che oggi ne condivide l’ingresso come momento di consacrazione della famiglia.

Chiudendo, Brignone lancia un messaggio a chi sogna un futuro nel cinema documentario: non aspettare che le cose accadano. Frequentare festival, confrontarsi, cercare le occasioni. Se oggi basta accendere Netflix per vedere un film, città come Napoli, Roma e Venezia offrono ancora spazi reali in cui incontrare il cinema dal vivo, misurarsi con le immagini degli altri e con le proprie. Il primo passo è sempre avere il coraggio di mettersi in gioco.
Lucia Esposito
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Ateneapoli – n. 10 – 2025 – Pagina 38

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