Si parla tanto di auto elettriche, di riduzione del consumo di carne ma “non si racconta il settore tessile come una delle principali fonti di inquinamento nel mondo”

Consumo in eccesso di risorse naturali, contaminazione idrica, emissioni di gas a effetto serra. E opacità nel riutilizzo dell’usato. Dalla produzione fino allo smaltimento, il ciclo del settore tessile è una delle principali fonti di inquinamento a livello mondiale. E, peggio ancora, in molti ne sottovalutano l’impatto o non lo riconoscono affatto, foraggiando inconsapevolmente una macchina infernale. Di questo e altro si parlerà il 18 giugno presso il Dipartimento di Studi letterari, linguistici e comparati de l’Orientale durante l’evento conclusivo organizzato per la presentazione dei risultati del Progetto ‘Valorizzazione del second-hand nella comunicazione istituzionale della Pubblica Amministrazione locale campana’.

Il direttore scientifico è il prof. Alberto Manco, che ha realizzato l’iniziativa grazie al lavoro del gruppo che ruota intorno alla sua cattedra, quella di Linguistica generale, e al “contributo straordinario” della Fondazione IFEL-Campania e al suo Direttore Generale, Annapaola Voto.

Le ‘pezze vecchie’ e i pregiudizi

“I risultati sono andati ben oltre le aspettative – spiega il docente ad Ateneapoli – siamo stati nelle scuole, in realtà aziendali. Siamo usciti dalle mura universitarie andando anche in negozi vintage e mercati dell’usato per capire qual è la percezione dell’usato dal punto di vista linguistico, argomentativo, retorico. Ci siamo calati anche nella dimensione psicologica, perché in certi contesti il second hand – quelle che una volta si chiamavano pezze vecchie – è ancora considerato qualcosa di cui vergognarsi. E intervistando molti studenti ci siamo resi conto che questo pregiudizio ancora sussiste, ed è un problema”.

Dalla declinazione sociale a quella ecologico-ambientale: “così abbiamo provato a sensibilizzare i ragazzi”. Manco infatti dice: “ci siamo soffermati sul fatto che si parla tanto di auto elettriche, km 0, riduzione del consumo di carne, ma non si racconta il settore tessile come una delle principali fonti di inquinamento nel mondo, chissà perché”. Alcuni dati aiutano a inquadrare meglio la macroquestione. A partire dalla produzione globale di fibre tessili: dalle 58 tonnellate del 2000 si è passati alle 109 milioni del 2020 e, secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, potenzialmente si arriverà a 145 milioni di tonnellate entro il 2030.

Ed è un problema se si pensa che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrono 2.700 litri di acqua dolce, “un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo”, come rende noto sempre la stessa Agenzia che, infatti, stima che la produzione tessile sia responsabile di circa “il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari”.

Un esempio pratico di quanto impattino le azioni di un singolo: una persona qualsiasi acquista diversi capi su siti di marchi fast-fashion e, non appena li riceve, li lava in lavatrice. Ebbene un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere “può comportare il rilascio di 700.000 fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare”. E, ancora secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, “gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona”. Manco sottolinea quello che per lui è l’aspetto più drammatico: “anche i nostri figli, più attenti alle questioni ecologiche, umanitarie e sociali, indossano un capo etnico, magari anche simpatico, ma realizzato da un bambino di 6 anni in condizione di schiavitù e sfruttamento. Stiamo finanziando un sistema del genere”.

La vera distorsione, quella primigenia, starebbe “negli anelli economici e comunicativi della catena”. E qui si viene alla dimensione più strettamente locale del problema, punto di partenza per smuovere le acque. “Ci siamo concentrati sulla comunicazione da parte della Pubblica Amministrazione campana. Facendo uno screening di un campione di siti istituzionali di diversi Comuni della regione, in pochi si dimostrano sensibili sull’argomento: ci sono tante informazioni sulle isole ecologiche, sul conferimento dei rifiuti organici, sulle giornate di sensibilizzazione ma di tessile si parla pochissimo. E se lo si fa, avviene in termini di riuso e non di riciclo”. In un rapporto di Legambiente del 2022 si legge che “nel 55,2% dei Comuni esaminati non sono riportate le informazioni per il corretto conferimento della frazione tessile”.

Riuso e riciclo

E a proposito di riuso e di riciclo, la differenza non è solo semantica, come spiega il professore, ma “sta tutta nell’interesse commerciale”. “Intorno al riuso ruota l’indotto che prende il tessile usato e lo immette nel circuito del vintage. Può essere una cosa positiva – abbiamo intervistato imprese che agiscono alla luce del sole – ma cessa di esserlo quando qualcosa della filiera sfugge. Un esempio funzionale: abbiamo analizzato i volantini che in passato venivano rilasciati presso le abitazioni. Si invitava a lasciare indumenti dismessi in un sacco che poi sarebbe stato ritirato successivamente. In molti casi non si riesce a risalire all’entità che gestiva il tutto”.

Un’opacità comunicativa che racconta di come la filiera del riuso potrebbe finire “nelle mani di chiunque”. Ma tanta confusione regna anche sul riciclo: “il tessile deve essere riciclato attraverso una procedura fortemente classificata, non può essere mischiato con altri elementi che vanno nei rifiuti”. E infatti “solo l’1% degli abiti usati vengono riciclati in capi nuovi, mentre l’87% per lo più vengono inceneriti o portati in discarica”. La parola d’ordine resta una: sensibilizzare. Per questo, l’evento del 18 giugno “includerà attività di promozione e sensibilizzazione verso il riciclo e il riuso del tessile usato. Una mostra fotografica racconterà, attraverso immagini evocative, i processi vitali di lavorazione relativi all’abbigliamento second-hand e inviterà a riflettere sulle differenze tra il tessuto utilizzato per capi fast fashion e quelli vintage.

La cultura del riuso e la moda sostenibile saranno promossi da uno swap party co-organizzato con Legambiente”. Il programma prevede anche “uno spazio di confronto dedicato alla questione da un punto di vista scientifico. Alcuni studenti del liceo Sannazaro, inoltre, presenteranno una proposta di comunicazione destinata ai social istituzionali di riferimento sul tema del destino del tessile usato”. Infine, il professore lancia un appello accorato: “bisogna fare ogni possibile sforzo per sensibilizzare la Pubblica Amministrazione nel rivedere e rinnovare la comunicazione intorno a un problema che ha un impatto ambientale, culturale e sociale enorme”.
Claudio Tranchino
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Ateneapoli – n. 10 – 2025 – Pagina 8

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